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"Qualcuno mi sta tirando verso il basso. Lo sento anche se non lo vedo. Però non ho paura, ci sono già passato".
Correva l'anno 1993. Brian De Palma, dopo l'enorme successo ottenuto con "Gli Intoccabili" ("The Untouchables", 1987), si era imbattuto in una serie di insuccessi decisamente immeritati. Nel 1989, con "Vittime di Guerra" ("Casualities of War") aveva affrontato le problematiche relative alla guerra del Vietnam, dirigendo una solida pellicola di forte impatto drammatico, che divise in due l'opinione del pubblico e quella della critica. Alcuni gridarono al capolavoro, altri lo reputarono essere il peggior film diretto da De Palma, che fu definito ipocrita e retorico. L'anno seguente diresse "Il Falò delle Vanità" ("The Bonfire of the Vanities", 1990) una commedia sofisticata e caustica, che affronta con intelligenza le tematiche del razzismo, del fenomeno degli yuppie, della destrutturazione della famiglia e della società americana, della corsa la successo. In altre parole, la scarnificazione del sogno e del mito americano. Nonostante un cast artistico ineccepibile ed una sfoggio di tecnica, che solo De Palma sa regalarci (si pensi alla sequenza iniziale di circa cinque minuti, ispirata ad un episodio della vita di Truman Capote, durante la quale Bruce Willis è seguito dall'occhio sapiente del regista, che utilizza la steady-cam, senza nessuna soluzione di continuità), il film non piacque né al pubblico né alla critica. D'altronde si sa che, quando si attacca il sogno americano e quando si parla di razzismo invertendo i ruoli fra i bianchi e i neri, il pubblico, abituato ai suoi soliti cliché politically-correct, s'indigna. Ma è il film successivo a sferrare il colpo più duro alla carriera del regista. "Doppia Personalità" ("Raising Cain", 1992) si rivelò un pesante insuccesso (per poi essere rivalutato solo successivamente) forse perché reputato troppo demodé e troppo infarcito di citazioni e di autocitazioni, da "Vestito per Uccidere" a "Sisters", da "Complesso di Colpa" a "Omicidio a Luci Rosse", il tutto passando per "Psycho".
Nel 1993, Brian De Palma decide di cambiare registro, alzando decisamente il tiro e facendo ritorno al cosiddetto genere del Gangster Movie, che mai lo ha tradito. Richiama Al Pacino, che aveva diretto nel 1983 in "Scarface" e che era in corsa per l'oscar (che poi vinse) per "Scent of a Woman", e si affidò ad un soggetto, tratto da un romanzo ispirato ad una storia vera, proprio come per "Gli Intoccabili", che però si rifaceva ad una serie televisiva, basata su fatti realmente accaduti.
Il 1993 è l'anno di "Carlito's Way".
Il soggetto è tratto da due libri scritti da Edwin Torres, giudice della Corte Suprema dello Stato di New York, intitolati "Carlito's Way" e "After Hours". In realtà il film di De Palma è tratto solo dal secondo romanzo citato, mentre dal primo, che narra l'ascesa al potere di Carlito Brigante, prende esclusivamente il titolo. Il film, infatti, avrebbe dovuto chiamarsi "After Hours", ma esisteva già l'omonima pellicola diretta da Martin Scorsese nel 1985, quindi, benché quest'ultima non avesse niente a che vedere col romanzo di Torres, la produzione decise di utilizzare il titolo del libro precedente per evitare possibili confusioni.
"Carlito's Way" è un noir intenso e coinvolgente, venato di romanticismo, di poesia e di malinconia. Tutto il film, così come la storia narrata, è incentrato sul personaggio di Carlito Brigante, magistralmente interpretato da un Al Pacino affascinante ed attraente, come forse non è mai stato. Un protagonista carismatico, che racchiude in sé tutta la forza e tutta la seduzione dell'eroe perdente.
Tutto comincia con il primo piano della bocca da fuoco di una pistola dotata di silenziatore. Due colpi sono sparati a bruciapelo nel ventre di Carlito Brigante. L'uomo mentre viene trasportato in barella attraverso la stazione dove è stato ferito, ripercorre gli ultimi accadimenti della propria vita che lo hanno condotto a quel momento fatidico e formula una promessa:
"State tranquilli. Ho un cuore che non molla mai! Non sono ancora pronto a fare fagotto".
Ed così che la voce fuori capo di Carlito ci accompagna a ritroso nel tempo narrandoci l'odissea di un uomo che, dopo aver trascorso in prigione solo cinque dei trent'anni cui originariamente era stato condannato, ha deciso di abbandonare la vecchia strada, costellata di crimini e di violenze, per inseguire un proprio sogno: la vita tranquilla e piccolo borghese di un autonoleggiatore a Paradise Island.
Se ci è consentito il paragone un poco ardito, potremmo dire che "Carlito's Way" comincia, quasi dove finisce "Scarface". Si ricordi la scena di questo film, in cui Tony Montana straparla al tavolo di un ristorante di lusso, commentando gli esiti della propria ascesa la potere:
"È tutto qui? Si riduce tutto a questo? Mangiare, bere, scopare, fumare, sniffare... e dopo? Dimmelo! E dopo? Arrivi a cinquant'anni e ti ritrovi una pancia come un barile. Ti vengono due sise come una balia, ma con i peli sopra. Ti ritrovi un fegato mezzo disintegrato a forza di mangiare questa roba di merda. E diventi come queste mummie del cazzo che stanno qua dentro. Si riduce tutto a questo? È per questo che ho lavorato? Dimmelo!".
Ebbene questa consapevolezza, che si abbatte su Tony Montana, trascinandolo verso il proprio destino, Carlito Brigante l'ha maturata precedentemente. Egli ha già parzialmente pagato per le proprie colpe. Ha avuto modo di riflettere e di desiderare un cambiamento: il sogno di una vita completamente differente.
In "Carlito's Way" si abbandonano le atmosfere della tragedia shakespeariana di "Scarface" per lasciare posto ad un noir romantico, decadente e intriso di malinconia. L'arroganza ed i desideri di grandezza di Tony Montana cedono il passo al desiderio di semplicità e al sogno di una vita serena e lontana dal proprio passato di Carlito Brigante, che infatti spiega così al proprio avvocato ed amico David Kleinfeld (Sean Penn):
"Te l'ho detto: non ci voglio tornare in strada. L'ho fatta per venticinque anni quella vita e che cosa mi ritrovo? Cosa?"
e poi:
"Voglio dirti una cosa: gli autonoleggiatori non finiscono ammazzati! [...] È un sogno, Dave. Bisogna sognare, amico".
Primo grande punto di forza di questa pellicola è l'ottima sceneggiatura scritta dal bravo David Koepp. Una costruzione solida ed ineluttabile che dà grande valore al film. Essa, infatti, non narra una storia particolarmente originale, ciononostante cattura lo spettatore e lo conduce dentro quel vortice che trascina via con sé i personaggi del film. I dialoghi sono eccellenti e in alcuni casi di difficile traduzione. Ad esempio:
"Oh, you up against me now, motherfuckers! I'm gonna blow your fuckin' brains out! You think you're big time? You gonna fuckin' die, big time! You ready? Here comes the pain!"
tradotto con:
"L'avete fatta grossa, brutti figli di puttana! Vi faccio saltare quei cervelli di merda! Vi sentite due eroi? Allora adesso morirete, eroi di merda! Siete pronti? Siete già morti!".
Senza essere esperti di glottologia, dalla comparazione dei due testi risulta evidente quanto la versione in lingua originale sia più potente e più efficace della versione, pur sempre buona, tradotta. E, in particolare, la scelta di tradurre "big time" con "eroi" anziché con "pezzi grossi", come forse sarebbe stato preferibile, indebolisce e non di poco l'impatto emotivo della frase all'interno di quello specifico contesto.
Una sceneggiatura che alterna con maestria le scene, consentendo una perfetta caratterizzazione dei personaggi, senza però mai annoiare lo spettatore e regalandogli un coinvolgimento ed una partecipazione crescente alla vicenda.
Quindi quella di Koepp è una sceneggiatura sapiente, ben scritta e piuttosto complessa.
Secondo punto di forza di questo film è la favolosa regia di Brian De Palma.
Come abbiamo detto, siamo nel 1993 e Hollywood è invasa da registi e montatori che sembrano provenire tutti dalla gavetta televisiva e pubblicitaria. In quegli anni ci si abituava ad assistere a lavori più prossimi al videoclip che non al film. Brian De Palma, naturalmente, non fu di questo avviso. Regista sapiente e virtuoso, costruisce "Carlito's Way" attraverso soggettive trascinanti e lunghi piani sequenza visivamente seducenti, ma mai fini a loro stessi. Una regia altamente artistica e sofisticata, che però si dedica completamente alla caratterizzazione dei personaggi ed all'evoluzione narrativa della storia, infondendole un romanticismo malinconico e donandole i suoi tempi, le sue pause e una perfetta alternanza fra andamenti crescenti e discendenti, fra aspettativa e disillusione, fra il vincere e il perdere, fra il vivere e il morire.
È incommensurabile il piano sequenza iniziale, in bianco e nero (girato a colori e poi decolorato), col lento scorrere delle luci al neon, col il volteggiare fluido e morbido della macchina da presa che alterna campi medi e ravvicinati ad inquadrature dall'alto verso il basso che trascinano lo spettatore nell'ottica del protagonista. Sequenza che si conclude con un intenso primo piano degli occhi di Carlito che osservano con malinconia un manifesto pubblicitario (unico elemento a colori) su cui risalata la scritta "Escape to Paradise".
É semplicemente perfetta tutta la costruzione della sequenza all'interno della sala da biliardo del negozio di barbiere. Sia nella sua sapiente preparazione, sia nello svolgimento dell'azione, De Palma regala al pubblico un esercizio di stile perfettamente integrato con la trama. Si pensi al gioco degli occhiali a specchio che consentono a Carlito di vedere quello che avviene alle sue spalle. Ma ancora di più, si pensi ai numerosi mezzobusto di Al Pacino in cui lo spettatore è invitato a scoprire i dettagli attraverso il movimento degli occhi di Carlito; particolari apparentemente insignificanti che poi saranno, invece, al centro dell'azione. Anche il gioco cromatico e di luci è funzionale allo svolgimento dell'azione. Si passa da un luogo infernale, la sala da biliardo, con le sue pareti di mattoni rossi, colore dominante nell'intera scena, e con i suoi punti di luce ma soprattutto con le sue ombre, ad un rifugio salvifico, il bagno teoricamente in riparazione, con le sue mattonelle bianche e la sua luce ialina che non lascia luoghi d'ombra.
Altrettanto sapiente e trascinante è la soggettiva che narra l'ingresso di Carlito al Night Club "El Paraiso" (vi sembra di ricordare un eventuale legame con lo stand di fast food di "Scarface"? Avete ragione!). Il cameriere che guida Carlito, conduce anche lo spettatore a visitare l'interno del Night, contribuendo a quella progressiva identificazione fra spettatore e protagonista. Immenso, poi, il primo piano di Al Pacino prima della precipitazione di Benny Blanco (John Leguizamo) per le scale di servizio del Night Club.
Impossibile non citare anche la sequenza dell'incontro fra Carlito e Kleinfeld all'ospedale (l'esterno dell'ospedale vi sembra di averlo già visto, per esempio ne "Il Padrino"? Avete ragione!). Durante questa sequenza regia e montaggio regalano un'altra straordinaria prova di stile. Ogni singola inquadratura si integra perfettamente con le parole che i due personaggi si scambiano. E così il primo piano di un pugno chiuso, il dettaglio di un revolver appoggiato su un vassoio, l'inquadratura degli occhi dei personaggi e dei loro mutamenti espressivi, l'inquadratura dal basso, ripresa dall'interno di un cestino dell'immondizia, e quei sei oggetti che vengono gettati al suo interno, tutto ciò, rappresentato e montato con una tempistica perfetta, ha permesso di costruire una sequenza memorabile e di altissima scuola.
Gli ultimi quindici minuti di film sono poi qualcosa di assolutamente straordinario a partire dalla fuga di Carlito dal Nigth Club, a tutto l'inseguimento in metropolitana, fino alla sparatoria sulle scale della stazione ferroviaria (pensate di aver visto qualcosa di simile in "Vestito per Uccidere" e ne "Gli Intoccabili"? Avete ragione!). Un inseguimento costruito a regola d'arte, durante il quale Brian De Palma non si fa e non ci fa mancare niente. Una perfetta alternanza di soggettive e di piani sequenza, corroborata da sapienti primi piani degli attori e dei dettagli utili allo svolgimento dell'azione, senza dimenticarsi della perfetta contrapposizione fra piani lunghi e piani ravvicinati con inquadrature dall'alto e soggettive antitetiche, riprese dal basso. Un sequenza trascinante, solida, tesa ed incalzante che conduce verso un destino noto fin dal principio, ma non privo di sorprese. È indubbiamente questa fuga finale che fa di "Carlito's Way" un capolavoro cinematografico ed una summa del genere noir, romantico e decadente.
La regia di De Palma è anche incredibilmente misurata. Infatti tutti questi virtuosismi e le frequenti citazioni, sono così perfettamente integrati alla trama e così confacenti alla caratterizzazione dei personaggi, da passare quasi inosservati.
Al Pacino ci regala un'interpretazione magistrale, ma nessuno degli altri interpreti è mai fuori dalle righe. Tutti sono credibili, tutti interpretano dei personaggi che sembrano vivere di vita propria. Non si può non ricordare l'eccellente interpretazione di Sean Penn, che all'epoca si rivelò una piacevolissima sorpresa. L'attore accettò il ruolo di Kleinfeld solo per ragioni economiche; egli voleva infatti raccogliere i fondi per poter girare "Tre giorni per la verità" ("The Crossing Guard", 1995). Ciononostante, la sua personificazione del perfido avvocato, vile e cocainomane, è incredibilmente bella.
Da segnalarsi la partecipazione di un allora sconosciuto Viggo Mortensen nel ruolo del paraplegico Lalin.
Semplicemente magnifica Penelope Ann Miller (con cui all'epoca Al Pacino ebbe una relazione), nel ruolo di Gail. È al contempo il sogno di una vita diversa, una luce di salvezza, uno spiraglio di redenzione, il rimorso di un passato ancora troppo presente, la voce della coscienza. Gail è un paradiso fatto di carne e di passione.
"Carlito's Way" è anche un film in costume e, come si è già detto in altre occasioni, uno dei più difficili da realizzare poiché ambientato in un passato ancora troppo recente per potersi definire storico.
Tuttavia le atmosfere, i costumi e le ambientazioni degli anni settanta sono assolutamente perfetti, credibili e sapientemente coadiuvati da un'eccellente colonna sonora.
È impossibile non lasciarsi sedurre dal fascino elegante di questa pellicola e non lasciarsi trascinare nel vortice dell'odissea esistenziale di Carlito Brigante.
Lo vediamo ancora salire su un tetto, sotto una pioggia scrosciante e con il coperchio di un secchio dell'immondizia come solo riparo, per spiare da lontano la donna che ama e per scoprire se il suo volto è ancora così come lo ricordava. La osserva danzare sulle note della Lakmé di Delibes e nella grazia dei suoi gesti avverte tutta la pesantezza degli anni perduti e del tempo sprecato.
"Carlito's Way" è un capolavoro che va al di là dei tempi e delle mode. È arte e poesia e dramma e azione e sentimento. Un'opera difficile da imitare; un livello difficile da raggiungere.
Un film incalzante e struggente, che non stanca mai e che non finisce mai di appassionare e di sedurre.
Da non perdere neppure i titoli di coda che scorrono sullo sfondo di uno splendido tramonto tropicale. L'animazione del cartellone pubblicitario e la danza accompagnata dalle note della canzone di Joe Cocker "You are So Beautiful" sono un epilogo, ma anche la realizzazione parziale di un sogno. È la vita colta in un singolo attimo che si dilata nel tempo fino a raggiungere la soglia dell'eterno.
"Ultimo giro di bevute. Il bar sta chiudendo. Il sole se ne va. Dove andiamo per colazione? Non troppo lontano. Che nottata! Sono stanco, amore. Stanco".
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 22/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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