Recensione c'era una volta a new york regia di James Gray USA 2013
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Recensione c'era una volta a new york (2013)

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locandina del film C'ERA UNA VOLTA A NEW YORK

Immagine tratta dal film C'ERA UNA VOLTA A NEW YORK

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1921. Ellis Island è l'anticamera per tutti gli immigranti che aspirano alla cittadinanza statunitense.
Dalla Polonia arrivano le sorelle Cybulski, i cui destini prendono da subito strade diverse. Magda (Angela Sarafyan, "Il potere dei soldi") è malata e la mettono in quarantena, mentre Ewa (Marion Cotillard, "Midnight in Paris" e "Un' ottima annata") viene notata da un "magnaccia" locale, Bruno (Joaquin Phoenix, "Il gladiatore" e "The master"), che la spinge a prostituirsi.
Costretta alla lotta per la sopravvivenza sua e della sorella che abbisogna di soldi per pagare le cure, lo sfruttamento del corpo sembra l' unica soluzione possibile, soprattutto dopo essere stata abbandonata anche dalla parte della famiglia presente a New York, ovvero la zia Edyta (Maja Wampuszyc) e lo zio Voytek (Ilia Volok ("La guerra di Charlie Wilson"). L' unica luce per Ewa sembra provenire dal cugino di Bruno, l' illusionista Orlando (Jeremy Renner, "The Avengers" e "The hurt locker"), che si innamora di lei e le propone un piano per riprendere Magda su Ellis Island e fuggire insieme. Quando tutto sembra volgere al meglio, ecco però farsi avanti la gelosia di Bruno, infatuato fin dal primo momento della bella immigrante polacca. Lo scontro risulterà fatale nel destino di entrambi i cugini, ma non fermerà Ewa dalla sua ferma volontà di ricongiungersi con la sorella.

Esiste un solo appunto da muovere a questo meraviglioso nuovo film di James Gray ("Little Odessa" e "Two lovers"), e non riguarda né il regista, né gli attori, né nulla altro che abbia a che vedere con la pellicola stessa. La critica è tutta per la simpatica scelta italica nella traduzione del titolo. L'originale, "The immigrant", è perfetto. Attinente. Esaustivo. Dice già cosa si sta per vedere. E le prime inquadrature su Ellis Island riportano immediatamente anche ad un periodo storico ben definito: dal 1892 al 1954 l'antico arsenale militare fu il punto di ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti. Detto questo, la domanda è la seguente: per quale accidenti di motivo in Italia deve cambiare completamente e diventare "C'era una volta a New York"?, perché dare come titolo, a qualsiasi film che non sia nell'originale "Once upon a time", il pretenzioso "C' era una volta in Vattelappesca"? Gli spettatori non sono scemi e hanno memoria, sanno cosa si va a ricordare con un nome del genere. Qualcuno meno smaliziato inevitabilmente "abbocca" al trappolone escogitato per attirare più gente possibile, e così facendo non si rende buon servigio ad un film che non ha bisogno di nessun favore. Perché è bello. Molto.

Marion Cotillard. Pausa di riflessione.

Basterebbe il suo nome, oggi, per parlare bene di qualsiasi lavoro in cui ci sia lei. Questa donna non sbaglia un colpo, e se lo sbaglia lo rende giusto lo stesso anche solo con la sua presenza. Marion Cotillard ha un unico difetto: non ti fa seguire il film. Bella, anzi bellissima, per qualsiasi gusto. Brava, anzi bravissima, per qualsiasi critico. Per renderle l' importanza dovuta in "The immigrant" (dopo tutta la solfa di cui sopra, chi scrive preferisce usare il titolo originale per il resto della recensione), è d'uopo riportare le parole che le ha dedicato lo stesso Gray: "[...] questa donna non ha bisogno di parlare. E' talmente espressiva che potrebbe fare un film muto. [...], ho scritto il film per lei, perché è la storia di un' immigrata e ho pensato che lei potesse trasmettere uno stato d'animo in maniera non verbale. Non credo che avrei fatto il film senza di lei". E ancora, a proposito della difficoltà linguistica di recitare in polacco, è decisamente incredibile questo aneddoto, sempre raccontato dal regista: "Un giorno ho chiesto all'attrice che interpreta la zia cosa pensasse del polacco parlato da Marion. Ha detto che era eccellente ma che aveva un vago accento tedesco". La motivazione data dalla bella parigina (già, perché magari in tutto questo, qualcuno se lo dimentica: lei è francese!) è strabiliante: "Sapendo che il mio personaggio viene dalla Slesia, che è situata tra la Germania e la Polonia, lo sto facendo di proposito". Spiazzante...
Signori, una vera Attrice. Questa intervista andrebbe letta ad alta voce in una stanza con dentro la maggior parte degli attori barra attrici nostrane. E poi accendervi un falò, perché tanto non la capirebbero.

"The immigrant" è un film d'altri tempi. Sussurrato, con una luce molto cupa, lo vediamo attraverso gli occhi della protagonista, Ewa (quindi lo vediamo bene). Si passa da un luogo ormai dimenticato come Ellis Island ad una Manhattan fredda, pericolosa, decisamente poco ospitale per chi viene da fuori. Riecheggia nello sviluppo della fotografia "Il diario di un curato di campagna" di Robert Bresson, da cui Darius Khondji ("Amour" e "Seven") ha visibilmente tratto ispirazione, soprattutto per il tema religioso, fortemente presente quando Ewa va a confessarsi, ignara di essere ascoltata anche da Bruno, in una delle scene più toccanti. E proprio la fotografia risulta essere uno dei punti di forza. La luce sembra costantemente fornita soltanto o dal sole, poco, o dalle candele, per accentuare il senso di intimità della protagonista.

Non solo Bresson tra le citazioni. Anche Ellis Island è stato più volte usato da illustri predecessori. Su tutti "Il padrino parte II" di Coppola - quando viene revocato l'arrivo di Don Vito a New York, il suo ricovero per vaiolo è proprio nell' isolotto sul fiume Hudson. Oppure "Il ribelle dell' Anatolia" di Kazan. E per dovere di cronaca anche "Hitch" di Tennant. Lo stesso Gray ne aveva sentito tantissimi racconti dai nonni, e questo aspetto personale traspira per tutti i 120 minuti della storia. Quel senso di solitudine, di sbandamento, arriva molto chiaramente. Sicuro ne giova al film l'aver potuto girare proprio ad Ellis Island.

Menzione speciale va al co-sceneggiatore Richard Menello, già autore di "Two lovers" con lo stesso Gray. Morto il 1 marzo 2013, ha fatto in tempo a vedere il suo ultimo lavoro. E che lavoro.

Nella parte che segue sono presenti spoiler, se ne sconsiglia quindi la lettura a chi non avesse visto il film.

Ultima nota per la scena finale. L'inquadratura, doppia, pone a sinistra le due sorelle su una barca che finalmente vede ricongiunte Ewa e Magda, mentre a destra Bruno, perdonato dalla bella polacca ma rimasto irrimediabilmente solo e con tanti problemi legali da risolvere. Il muro della stanza in cui è avvenuto il perdono divide fisicamente e ideologicamente le due parti che raccontano contemporaneamente la fine dell'uno e dell'altra, o meglio, la fine dell'uno e l'inizio di una nuova vita dell'altra. Degna conclusione di un film bello, essenziale, toccante. Che non abbisogna delle furbizie (o trattasi di stupidità?) italiane.

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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 09/01/2014 15.19.00

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