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Carcere di Rebibbia. Sezione Alta Sicurezza. Un cast di soli detenuti chiude tra gli applausi di parenti, guardie e ragazzi, la messa in scena del "Giulio Cesare" di William Shakespeare. Buio. Si rialzano le luci che ci mostrano i secondini intenti a riportarli in cella, serrando sia la prima che la seconda porta dietro le loro spalle.
Ancora buio, ma un buio molto più amaro stavolta. Sei mesi prima c'era stato gran fermento nella selezione di Cassio, Bruto, Cesare, Marcantonio e di tutti gli altri personaggi da parte del regista Fabio Cavalli, che da anni collabora a progetti come questo, per una sorta di riabilitazione creativa dei detenuti.
Scelti i ruoli, grande è la dedizione, da subito, per la rappresentazione dell'opera del drammaturgo inglese. Spacciatori, delinquenti, ladri, mafiosi, assassini. Da Roma, da Napoli, da Catania, da Bari. Chi l'ergastolo, chi 10 mesi, chi 10 anni. L'arte non fa differenze, non ci sono figli e figliastri, tutti sentono da subito proprie quelle battute scritte quasi mezzo millennio fa.
Le giornate sono scandite dai provini, dai dubbi, dalle emozioni forti, che da sempre provocano le opere di Shakespeare. Non mancano le incomprensioni che rischiano di far calare il sipario prima ancora di averlo alzato, ma fortunatamente i comuni intenti sono forti e la resa in scena di questi uomini, con un debito da pagare alla società, è magistrale.
E così Bruto e Cassio cospirano,Cesare viene pugnalato nelle idi di marzo, Marcantonio pronuncia il celebre "Amici, Romani, cittadini, prestatemi orecchio...", si allea con Ottaviano, Roma si divide: chi segue i fedeli dell'Imperatore e chi invece corre dietro le parole di libertà dei "tirannicidi", la resa dei conti è affidata alla piana di Filippi, dove periranno i congiurati, che preferiranno il suicidio all'essere fatti prigionieri. E così rieccoci al punto di partenza: il sipario cala, il buio, le celle, e Cassio, o meglio, Cosimo Rega, regala la battuta più amara guardando dritto in camera: "Da quando ho conosciuto l'arte, 'sta cella è diventata 'na prigione".
Questo è, fondamentalmente, il bellissimo vincitore dell'Orso d'Oro a Berlino. Gioco di contrasti. Ad esempio il colore: apre e chiude il film, presente solo nelle scene del "Giulio Cesare", mentre tutto il resto è in bianco e nero, eccezion fatta per i pochi secondi in cui uno dei protagonisti guarda il poster (a colori, appunto) di una scogliera. Questo per enfatizzare maggiormente la tristezza del carcere, come a dire che quella non è vita, la vita è sul palcoscenico, la vita è fuori, ma lì dentro si può solo far passare il tempo.
Oppure i provini: la lunga carrellata sulle singole presentazioni, tutte in dialetto, in cui proviamo un senso di compassione prima, simpatia poi, vengono bruscamente sfumate dalle didascalie sulle colpe e sulle pene di ognuno di loro. Le risate suscitate da questi attori improvvisati terminano in amare riflessioni quando appaiono descrizioni come: "associazione a delinquere", "mafioso", "assassino"...
E poi ancora il ruolo di un grande Fabio Cavalli impegnato ad interpretare se stesso: il regista di tante rappresentazioni teatrali, che da anni collabora col carcere di Rebibbia, è chiamato ad inventarsi attore nella parte di... Fabio Cavalli!
Il contrasto più forte è giustamente nella storia stessa: il "Giulio Cesare" è la tragedia che racconta di un grande tradimento, di congiure, di paura, di lotte e di voglia di essere liberi. E chi meglio conosce, facendo proprie, queste situazioni? La capacità di raccontare Shakespeare attraverso il dialetto napoletano, con la sua grande cultura drammatica alle spalle, contrapposta al romano di Cesare (un Giovanni Arcuri che svetta sopra tutti per presenza e prestanza fisica), porta un racconto così lontano nel tempo ai giorni nostri. D'altronde, come dice Salvatore Striano (Bruto): "mi pare che questo Shakespeare sia vissuto tra le vie della mia città".
Si alternano così le prove ai racconti personali dei detenuti, che rivedono in tanti dialoghi le loro esperienze, facendoci a volte ridere, a volte riflettere, con dialoghi mai banali, mai una corsa ad essere migliori degli altri. Meraviglioso il modo in cui spesso gli attori mettono in discussione il testo, in cui cercano, attraverso il loro dialetto, di far comprendere in modo semplice parole che spesso semplici non sono, da applausi quando Bruto deve "trovare" il suo posto nella scena in cui Cassio (Cosimo Rega) lo invita a guardare dalla finestra e commovente è il grido comune di "libertà" quando viene pugnalato Cesare.
I fratelli Taviani ("Padre padrone" e "Le affinità elettive") vincono con merito un premio che ci rende orgogliosi del nostro cinema, e ci regalano un'ultima, stupenda frase di uno dei loro "attori" non inserita nel film per esigenze di montaggio. Scrivendo alla sua ragazza le dice: "Vieni a vedermi recitare, perché quando recito mi sembra di potermi perdonare".
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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 05/03/2012 15.15.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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