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Quale uomo non desidera vedere riconosciuto il proprio lavoro?
Quale uomo non desidera sentirsi un padre ed un compagno amato?
L'uomo che ha carattere e serenità d'animo, lui sì, costruisce da sé il proprio appagamento. Ma l'uomo latente deve accettare il compromesso, spostando il limite della propria coscienza sempre oltre, perché spregiudicato o semplicemente troppo debole per opporvisi.
Capita così che Nobuyuki Shamoto, modesto titolare di un modesto negozio di pesci tropicali, per una serie di eventi finisce per collaborare con Yukio Murata, apprezzato, agiato ed eccentrico esercente dello stesso settore. Da una casualità quasi preordinata nasce un legame professionale che arriva a coinvolgere anche le rispettive famiglie, finché la cornice dorata non inizia a macchiarsi di sangue. Ne scaturisce improvvisamente una perversa vertigine sanguinaria, in cui è difficile capire chi rimane effettivamente innocente.
Molti registi si sarebbero seduti sugli allori del successo, se fossero stati in grado di produrre un'opera di impatto devastante come lo è stato la cosiddetta "trilogia dell'alienazione" di Sion Sono. Che poi è una trilogia più concettuale che narrativa, visto che le storie narrate in "Suicide Circle" (2002), "Noriko's Dinner Table" e "Strange Circus" (entrambi 2005) sono tra loro accomunate nei temi.
Sion Sono no.
L'artista giapponese (nato poeta, cresciuto scrittore e compositore, consacrato regista e attore) vanta una filmografia dall'estenuante coerenza espositiva, che trascende la suddetta trilogia per dar vita ad altri lavori di spessore come "Love Exposure" (2008), e "Guilty of romance" e "Himizu" (2011).
Così, anche "Cold fish" (2010) si nutre in primis di quella radicale alienazione, tipicamente figlia di una civiltà realmente straniata e straniante come quella orientale. Nella filosofia di Sion Sono, l'alienazione come un manto oscuro riveste la vita dell'uomo della strada, anonimo protagonista di un'esistenza squallida, becera e solitaria nell'inconsistente società odierna: un vuoto esistenziale come climax negativo dell'uomo contemporaneo, un buco nero che assorbe ed annulla il credo nei valori classici. Altari e statue sacre assistono a sacrifici di sangue votati alla divinità dell'affermazione di sé, instaurata con una prevaricazione che si fa beffe del rispetto della vita umana. Nel sangue annega la fiducia nei propri simili, nei soldi si esalta il nuovo dio, nel sesso si spegne il focolare familiare che da nido diventa tomba.
Su questo lugubre sfondo decadente collidono i mondi dei due protagonisti.
Il brillante e sprezzante affarista si fa strada distruggendo facilmente esistenze a proprio piacimento, mentre l'umile omuncolo privo di spina dorsale sopravvive nella facile scelta dell'accontentarsi di un'attività mediocre e di rapporti familiari tacitamente conflittuali, tentando disperatamente di salvarsi nel poetico ricordo di stelle e pianeti che però hanno il solo effetto di astrarre la sua esistenza dalla terra concreta. La verità che lo condanna gli verrà brutalmente messa sotto gli occhi troppo tardi: "Guarda la tua triste vita e dimmi: hai mai affrontato un problema?".
Sono vite diverse che fungono reciprocamente da brutale nemesi delle proprie mancanze, destini accomunati dal desiderio di vedere nello specchio un dignitoso riflesso di sé. Ma il sogno di riempire la propria vita si svuota in un inconcludente percorso letale ("La vita è dolore. Vivere fa male").
Certamente in "Cold fish" l'anima sudicia della pellicola è resa anche a livello visivo in tinte scure e ambientazioni lorde, coronate da una colonna sonora anonima ed amorfa.
Su questo sfondo si stagliano i due antieroi impersonati dall'ottimo Mitsuru Fukikoshi e da un disarmante Yoshihiro Ogata (aka Denden), in stato di grazia, ma pure il resto del cast dà vita a personaggi grotteschi, un marasma di corpi che indifferentemente si azzuffano in furiose risse senza ritegno o si concedono a vacui amplessi senza amore.
In ultima analisi, "Cold fish" è un film di difficile approccio. Innanzitutto pecca di una certa bruttura estetica e per gran parte di lentezza evolutiva, per quanto ricercate queste possano essere. Lo scoglio principale resta comunque l'impatto violento dell'opera, che di sicuro non è per tutti (come l'opera omnia di Sion Sono, in realtà) ma che resta in ogni caso meritevole di riflessione. Soprattutto ove si consideri che la pellicola è ispirata ad eventi realmente avvenuti nel 1993, noti alle cronache come "Saitama Dog-Lover Murders".
Suvvia, davvero pensavate che questa feroce decadenza contemporanea potesse essere solo frutto di fantasia cinematografica?
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Recensione a cura di ilSimo81 - aggiornata al 12/02/2018 16.26.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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