Recensione crash regia di David Cronenberg Canada, Francia, Gran Bretagna 1996
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Recensione crash (1996)

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locandina del film CRASH

Immagine tratta dal film CRASH

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Il regista pubblicitario James Ballard (James Spader) vive in maniera insolita l'esperienza di un incidente d'auto e scopre, in seguito ad esso di aver associato il piacere sessuale agli scontri automobilistici. James inizia una relazione atipica con la dottoressa Helena Remington (Holly Hunter), che nello stesso incidente ha perduto il marito e riesce nel contempo a contagiare la moglie Catherine (Deborah Unger) in un delirio da sessualità terminale che si esprime attraverso scambi di coppia. In uno di questi l'uomo subisce il fascino di Vaughan (Elias Koteas), che ha l'hobby delle ricostruzioni di famosi incidenti ed il cui sogno è l'incontro attraverso un frontale con Elizabeth Taylor.

È passato abbastanza tempo dall'uscita di questo film perché le incitazioni al rogo in nome della pubblica morale siano state se non dimenticate, per lo meno superate da urla originate da più recente indignazione. Ora possiamo dire che in definitiva Cronenberg ha solo fatto un gran lavoro: non è per niente facile tradurre in immagini i deliri di uno dei più controversi scrittori del secolo e Ballard è ancora adesso un cantore disilluso delle infinite possibilità di deriva umana.
Certo rappresentare una sessualità iperattiva dietro i vetri del prolungamento fallico per eccellenza, l'auto, deve essere sembrato davvero troppo a tutti gli adoratori dell'ultimo modello in commercio. Ma è proprio qua che Ballard e Cronenberg si incontrano e celebrano lo stato terminale delle ambizioni consumistiche, che non portano la felicità come promesso dagli spot, ma a volte possono condurre ad un apice eiaculatorio che si fa materia attraverso l'impatto, "Crash" per l'appunto. E se nel libro le parole erano forti, e lo sono ancora, di certo le immagini non sono da meno, quindi le rappresentazioni di famelici amplessi, come quelle di feticistiche riproduzioni di incidenti o le fantasie voyeuristiche messe in atto con una freddezza che richiama il metallo, non sono altro che il fine ultimo di chi deve per forza richiamare l'attenzione su un pericolo, quello poi avveratosi della progressiva meccanizzazione dell'io che si fa negazione della morte, attraverso il mancato riconoscimento della paura e la celebrazione della velocità come fine ultimo, ma per correre dove, poi nessuno lo sa.

In "Crash" la morte è il fantasma ultimo che viene mascherato da una sessualità iperattiva, che nega la sua esistenza, in contrapposizione con essa e che alla fine diventerà il veicolo del contagio, come ne "Il Demone Sotto la Pelle". "Crash" è un fantastico esempio di quello che in Cronenberg è divenuto celebrazione del diverso, un discorso iniziato anni fa con i primi film e che è sfuggito ai più in favore di una facile individuazione di una tematica di superficie come quella della poetica della nuova carne.

La chiave di lettura di "Crash" è da ricercarsi in un desiderio di rappresentare i riti di passaggio nel corso della vita, unico meccanismo per riconoscere la crescita individuale e sicuro termometro della nostra direzione. Tutto il film è incentrato sulla sopravvivenza del mito alla morte violenta, in questo senso i protagonisti del film vivono tutti un tempo preso a prestito, dunque territorio assoluto del mito. Il rito dell'incidente stradale è la chiave per accedere al mondo mitico rappresentato, la sessualità è il mezzo per affermare la propria sopravvivenza e il modo per celebrare il tempo in più che i protagonisti sottraggono alla morte. La chiave d'accesso per comprendere al meglio il discorso sul rito di passaggio è nella rappresentazione dell'incidente di James Dean. La morte di Dean lo ha consegnato al mito, i protagonisti del film, in quanto sopravvissuti ad un incidente d'auto sono essi stessi mitici, nel senso che hanno in comune sia la sopravvivenza che la menomazione. Ma sono anche coscienti che per entrare nel mito bisogna aver avuto un'esperienza che, in qualche modo gli ha cambiato la vita. La rappresentazione ha la valenza di acclamare chi riesce a sopravvivere più volte, sia all'incidente in sé che al passaggio attraverso l'esperienza mitica che simula la morte, il cui superamento li fa sentire vivi e non più mortali, non immortali però, la differenza sta nel fatto che loro possono morire, ma non ne sentono più la paura.

Detto questo, occorre richiamare l'attenzione sul fatto che il gioco iniziato da Ballard e proseguito poi da Cronenberg è quello di scardinare le icone consumistiche che anche oggi ci danno l'illusoria momentanea sicurezza di essere qualcuno. Un qualcuno talmente unico da trascendere, attraverso l'uso degli oggetti celebrati dalla pubblicità, il nostro destino ultimo. E se l'auto in Ballard/Cronenberg non è più il veicolo del prestigio sociale e fantasmaticamente la celebrazione delle proprie intime dimensioni, allora forse si può vedere meglio che dietro le nostre convinzioni circa i bisogni primari, si nasconde una manipolazione. Ed è a questo punto che i due ci lasciano a riflettere. Ma si tratta di una riflessione molto difficile sulle reali possibilità di trovare noi stessi sotto il marasma di convinzioni indotte, che ancora oggi ammorbano la nostra esistenza.

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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 31/03/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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