Recensione decalogo 2 regia di Krzysztof Kieslowski Polonia, Germania 1989
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Recensione decalogo 2 (1989)

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locandina del film DECALOGO 2

Immagine tratta dal film DECALOGO 2

Immagine tratta dal film DECALOGO 2

Immagine tratta dal film DECALOGO 2

Immagine tratta dal film DECALOGO 2

Immagine tratta dal film DECALOGO 2
 

Per Kieslowski i primi tre film del Decalogo furono i più difficili da scrivere, perché tutti e tre parlano del rapporto dell'uomo con Dio. Dove individuare quindi il riferimento del secondo comandamento all'interno di una pellicola? Forse in uno scambio di battute tra medico e moglie del malato, in cui lei fa l'esplicita domanda all'anziano dottore: "lei crede in Dio"? Ma andiamo con ordine.

La trama ha ancora una volta il gusto di una sorta di thriller dell'anima. Due i protagonisti principali ma in realtà ancora una volta sarebbero in quattro seguendo lo stesso schema del "Decalogo 1": il dottore e la moglie del malato di nome Dorota, il malato che rimane sempre sullo sfondo in una parte sempre passiva negli eventi (ma nel finale sarà lui a chiudere col dottore), poi una voce lontana che ascoltiamo solo dal ricevitore del telefono ed è l'amante di Dorota (così come in "Decalogo 1" la presenza della madre di Pawel era solo lontana e impalpabile).

Si avverte che nel seguito sono riportati particolari rivelatori della trama e del finale.

Dorota abita nello stesso palazzo dell'anziano medico che ha in cura il marito, affetto da un tumore che ormai lascia ben poche speranze. Lei è ossessionata: fuma sigarette a non finire, cerca il dottore in continuazione e si arrabbia quando viene respinto da lui perché deve prendere appuntamento, allora non si fa scrupoli a seguirlo.
Il medico è introdotto come un personaggio non scorbutico o scostante ma solitario al punto da risultare quasi sgradevole senza un vero perché. Ad accentuare questa sensazione è forse il modo distaccato con cui tratta Dorota inizialmente, ignorando gli evidenti tormenti della donna. E così nel mezzo dei loro incontri i retroscena di una loro vita passata vengono lentamente rivelati e si scoprono ferite insanabili e dubbi laceranti. La donna ha infatti un amante da cui aspetta un bambino e ha deciso di abortire solo se il marito sopravvivrà alla malattia; al contrario vuole tenere il bambino se il marito non ce la farà e quindi vivere con l'amante, che invece non la vuole se decide di non tenere il bambino.
Il medico racconta i suoi sogni ad una donna delle pulizie, l'unica persona con cui sembra aprirsi del tutto. Si scopre solo verso la fine che la sua solitudine deriva dall'aver perso la famiglia in un bombardamento. La parte centrale del film è lenta e imperniata principalmente su silenzi e dettagli da documentarista qual è principalmente Kieslowski: dettagli su tubi dell'acqua che colano nella stanza del malato o dettagli che verso la fine sorprendono con la splendida immagine metaforica dell'ape che con fatica esce dal bicchiere d'acqua, nell'anticlimax finale in cui il marito stanco e pallido ha vinto la sua lotta col tumore.
A Kieslowski basta questa semplice sequenza per evitare qualsiasi banalità di sceneggiatura e risolvere in un finale non-finale la storia che sembra(va) essere giunta ad un vicolo cieco.

Il riferimento al comandamento è complesso da spiegare e da trovare. Al di là della domanda di Dorota al dottore su Dio, in fondo è la stessa donna che cerca insistentemente di delegare in tutti i modi al medico il proprio tormento sulla scelta da compiere. Per evitare i sensi di colpa che ne conseguirebbero da una decisione o dall'altra, non si fa scrupolo a chiedere in continuazione la sua opinione sul futuro del marito: ce la farà o no? E a doverla dire tutta l'uomo non le da mai una risposta chiara e concisa, anzi sembra propendere verso un'apertura alla speranza e al miracolo che poi, puntualmente e con effetto paradossale di beffa, avviene. Ma a Dorota non basta questo, ha bisogno di sentirsi dire quello di cui ha bisogno per una scelta che forse ha già deciso di compiere ma che per fare deve sentirselo dire e delegare la colpa a qualcun altro. Al dottore appunto, sostituto ideale di Dio.
Ambiguamente il medico dirà ad un certo punto all'ennesima richiesta se dover abortire o no che sì, il marito morirà. Eppure gli esami sostenuti poco prima dicevano proprio il contrario. Eppure alla fine Dorota salva capra e cavoli: compagno guarito e figlio in arrivo, rinuncia all'aborto mentendo al marito dicendogli che il bambino è suo. Eppure quel finale ha un duplice effetto nello spettatore, quasi di beffa e struggimento quando il dottore sull'orlo delle lacrime ripensa alla sua, di figlia, morta sotto le bombe. Si rivaluta in pieno la sua figura, associandola a quella di un salvatore consapevole di due vite. Forse non nominare il nome di Dio vuole dire non dare nulla per scontato: è qualcosa che si sa potrà accadere eppure si fa finta non possa accadere. E puntualmente anche questo comandamento, come gli altri dieci, viene trasgredito.

Ancora una volta Kieslowski sceglie quindi una storia dilaniante anche se non ai livelli del "Decalogo 1", il dolore qui non raggiunge quei picchi ma quasi si propaga ad onde lente e consapevoli in sequenze inaspettate, come quella in cui Dorota strappa una per una le foglie di una pianta e torce la stessa, osservando il medico passeggiare per la strada. O quella già citata di chiusura, in cui il vero beffato è nel gioco del paradosso kieslowskiano proprio il marito di Dorota, anche se lui non lo sa e finalmente si apre ad un sorriso, mentre al medico si riempiono gli occhi di lacrime ai ricordi del passato. E nella visione laica del regista e di Piesiewicz è sempre imperscrutabile il disegno divino, o del caso. E così malignamente ci viene fatto notare come Dorota inconsciamente desideri la morte del marito, come quando andando a trovarlo all'ospedale e vedendo una barella uscire entra in camera, osserva il letto vuoto e disfatto e poi lentamente si gira trovando il marito disteso e sofferente, ma vivo sull'altro letto. Ed è in questa scena che rivediamo quel personaggio muto che assiste agli eventi di tutti i capitolo del Decalogo, stavolta non ai cigli della strada e scaldato da un fuoco ma con il camice da infermiere. Un breve sguardo imperscrutabile in cui sembra leggersi dolore, empatia o distacco.
Una cosa è certa: "Decalogo 2" ha un sapore strano di struggimento e insieme di beffarda amarezza.

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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 27/12/2011 11.57.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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