Voto Visitatori: | 6,87 / 10 (50 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 6,50 / 10 | ||
Henry Alex Rubin, classe 1976, è un cineasta americano emergente, che proviene dal mondo dell'aiuto-regia e del documentario.
Con un piccolo sforzo di memoria, non ci vuole molto infatti a ricordarlo alla co-direzione - con Dana Adam Shapiro - di un ottimo docu-film come "Murderball", la storia di due squadre di rugby per disabili che gli valse nel 2005 anche la nomination all'Oscar.
"Disconnect" è quindi la sua vera opera prima. Un debutto che non si può non considerare un successo di critica e di pubblico, considerati i grandi consensi suscitati sin dalla sua presentazione nel 2012 ai Festival del Cinema di Toronto e di Venezia.
Ma cosa racconta questo film?
Una giovane coppia di sposi, distrutta dalla morte del figlio appena nato, trova nel furto perpetrato da un hacker l'occasione di riavvicinarsi.
Una giornalista vuole salvare un ragazzo dal giro malato della prostituzione online, nel tentativo di fargli aprire gli occhi sul proprio futuro.
Due ragazzi subiscono le conseguenze del cyberbullismo nei confronti di un compagno triste ed introverso, scatenando un turbinio di eventi fuori dal loro controllo.
Tre storie bellissime: non c'è che dire, "Disconnect" è un film dannatamente ben fatto.
Però qualcuno dovrebbe dire a Rubin, fra le altre cose, che Crash è uscito dieci anni fa.
La prima nota dolente di una pellicola come questa, pur forte degli applausi alle rassegne, è che si tenta di far leva sull'emozione facile.
La struttura corale ad incastro tipica degli Arriaga-Inarritu è un metodo di facile presa, specie se si "cavalca" il successo della trilogia del regista messicano e soprattutto la fama riscossa dal gran film di Haggis.
E' vero che una sceneggiatura così ben congegnata - nel vero senso della parola - non può non emozionare e al contempo scatenare nello spettatore la riflessione - più che mai attuale - sui baratri sempre più profondi che Internet e il rapporto virtuale creano fra gli individui. L'epoca del naufragio della comunicazione, della morte del contatto fisico, trascina a fondo i personaggi portando con sé dolore, violenza e paura, e si fa fautrice dei conflitti non solo della generazione dei "figli", ma anche di quella dei "padri".
Il problema è che quando si costruisce razziando la cinematografia precedente, si rischia di cadere nella stessa trappola. Se il lato emotivo dello spettatore ne esce turbato, scosso, ma anche arricchito, Il lato più critico stenta a non guardarlo con freddezza e distacco.
"Disconnect" è un drammone potente, che riesce perfettamente nell'intento di regalare allo spettatore una storia che lo tenga con gli occhi ed il cuore fissi sullo schermo. Ma è molto, forse troppo ruffiano.
Fotografia leggermente virata, camere a mano che indugiano su primissimi piani dei volti, scene clou in slow motion ricche di pathos - fanno sicuramente la loro figura, ma non fanno i conti con chi il cinema ama "scandagliarlo".
Rubin ama darsi e dare al film - e lo sa fare - un sapore indipendente, lontano dagli stilemi del polpettone hollywoodiano. Il che è sicuramente un merito, vista sia la linea stilistica di regia che la scelta degli interpreti.
Il cast infatti potrà anche non contare sui grandi nomi - uno dei fattori su cui hanno "campato" i coraloni di Altman, Anderson, Haggis - ma dà prova di capacità, dal più famoso Jason Bateman al meno conosciuto figlio di Stellan Skarsgard (un Pewdiepie cinematografico visto solo in TV e in qualche altra grande produzione, non ultima "Melancholia" di Von Trier). Purtroppo però gli attori si muovono in un ambiente dallo spiacevole retrogusto televisivo, in una sceneggiatura forse troppo orizzontale, che sceglie di dare al puro intreccio narrativo quasi tutto lo spazio dedicato ai contenuti.
Contenuti, come si è detto, sicuramente profondi ed efficaci; il tormento di padri accecati, a cui solo la prospettiva della morte disvela le proprie mancanze di genitori, la solitudine di chi si vede ma non si guarda più, la disperazione di chi cerca un capro espiatorio pur di perdonare le proprie colpe, le barriere professionali e l'avidità di gente senza scrupoli che impediscono gli affetti e l'amore.
A queste tematiche Rubin non riesce a dare una forma, limitandosi a proporre un'autorialità troppo scolastica ed uno stile - per quanto staccato dagli stretti canoni statunitensi - troppo di maniera per cattivare davvero chi osserva.
Peccato: poteva davvero essere uno dei migliori film dell'anno.
Ma aspettare fiduciosi un ritorno più convinto che darà i suoi frutti.
"Look up": anzi, "look forward".
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Recensione a cura di Zazzauser - aggiornata al 23/01/2014 17.57.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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