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"C'è la parola, perché non la dobbiamo usare?"
Se in" Uomo e Galantuomo" le persone diventano pazze per stratagemma e per convenienza, usando la simulazione della malattia mentale per uscire da una situazione compromessa o compromettente, in "Ditegli sempre di sì", scritta nel 1927, Eduardo De Filippo parla della follia vera.
Si intuisce già dal titolo, difatti si dice sempre di sì ad un pazzo che si vuole assecondare nel gioco della follia per tenerselo buono. Il pazzo è Michele Murri, fratello di Teresa, che lo riaccoglie in casa dopo un lungo periodo di permanenza in manicomio. Si nota subito che la stessa sorella, con ogni probabilità, ha qualche cosa che non va, forse una tara genetica che hanno ereditato lei e il fratello: si muove in maniera particolare, quando parla, lo fa con gestualità e tic da persona non proprio del tutto sana. E poi il suo modo di chiamare la cameriera "Checcina" sempre nello stesso modo, come poi farà anche Michele.
Il primo dei due atti si apre proprio nella casa di Teresa, in cui è ospitato anche il giovane Luigi Strada, affittuario della stanza dove Michele dormiva prima del manicomio. Il giovane è una variante, l'ennesima del teatro eduardiano, dell'artista squattrinato e guascone, incline a prendersi la scena e a creare equivoci anche accollandosi le risate del pubblico (vero) che non può non notare la sua esuberanza grottesca e stupida. Ma Luigi è personaggio importantissimo, anzi il perno della commedia insieme a Michele: vedremo poi il perché.
Teresa non ha detto a nessuno del grosso problema di Michele, mascherandolo invece come un lungo viaggio d'affari . Quindi lei è la sola a conoscenza dell'internamento del fratello, ma il dottore andando a fargli visita le annuncia la buona notizia che presto quest'ultimo potrà tornare a casa; il medico precisa che Michele non è guarito del tutto ma non ha più gli scatti di nervosismo che lo costrinsero all'internamento.
Teresa, felice, caccia su due piedi il giovane Luigi, che intanto già ci mostra le sue "qualità" attoriali in un "saggio dell'arte sua" (i vari tipi di risata, il pianto) e l'attrito, che intuiamo regresso tra lui e don Giovanni Altamura, padrone di casa di Teresa e padre della ragazza, di cui Luigi è innamorato, di nome Evelina.
E dopo la preparazione iniziale, entra finalmente in scena il protagonista, Michele Murri. Capiamo subito che non è una persona normale, dagli sguardi, dai tic subitanei, ma che si notano chiaramente, dalle parole ossessivamente ripetute; comincerà subito a creare gli equivoci, che si risolveranno nel secondo atto. Infatti Michele è un pazzo fissato del linguaggio: per lui non esistono metafore o condizionali ipotetici, la parola significa esattamente quello che vuole dire.
Quando l'amico Vincenzo Gallucci gli dice che farà pace col fratello soltanto da morto ("Miché, sono morto"), senza pensarci due volte, Michele manda una lettera al fratello Attilio con la terribile notizia della morte di Vincenzo. Quando Luigi mimerà per scherzo il gesto di dare all'amico Ettore i soldi che ha preso in prestito (rubato, dice Michele) dai depositi dei suoi clienti, Michele questi soldi li vede davvero anche se non esistono.
Michele è un folle, non ci stancheremo mai di ripeterlo, ma la sua funzione va oltre quella di un personaggio costruito per far ridere il pubblico. Inizia con questa commedia la "risata amara" tipica di Eduardo, un risata che vuole far riflettere il pubblico su temi ben più vasti e mai essere fine a sé stessa. Perché Michele scardina con una metodologia lucida da matto tutte le ipocrisie della gente che lo circonda, basate proprio sulla convenzione del linguaggio che solo lui applica alla lettera; ne risolve i contrasti, favorisce le riappacificazioni, e lo fa essendo lui stesso un alieno rispetto a quello che lo circonda. Prova in continuazione a dialogare secondo un proprio codice linguistico con gli altri, cerca il ragionamento ossessivamente, ma si arrende subito e deve cedere.
È il pazzo che si rivela essere alla fine l'unico veramente sano, contrapposto ai cosiddetti normali, che alla fine non sembrano poi personaggi positivi come invece quello di Michele.
Nel secondo atto, ambientato in casa di Vincenzo Gallucci durante un pranzo, si sciolgono tutte le matasse. I fratelli grazie all'equivoco causato dal pazzo faranno pace, dopo che Giovanni si vede recapitare una corona di morto, poi c'è una scena in cui Michele scardina pezzo per pezzo una poesia scritta e recitata da Luigi (una critica buffa di Eduardo alle avanguardie poetiche di quegli anni) sempre con la sua fissata iperbole della lingua, per poi togliere i bottoni alle giacche di tutti i commensali, perché ad Attilio danno fastidio e fosse per lui troverebbe "un sistema per eliminarli tutti"; il secondo atto è altresì importante perché Michele trova in Luigi Strada (l'artista da stra-pazzo) il suo alter-ego ideale, l'ostacolo da superare per diventare un normale.
Già il loro primo incontro è funestato dalla risata di Luigi, che a Michele ricorda quella dei corridoi del manicomio, poi la ripetuta osservazione denigratoria degli altri personaggi (che non fanno altro che ripetere "è uno stravagante", "è pazzo") convincono Michele della follia del giovane. Anzi, portano Michele ad operare una sorta di transfert nei suoi confronti: rivede sé stesso in Luigi e gli dice e tenta di fargli quello che vorrebbe forse fare a sé stesso ma non ha la forza di compiere (il taglio della testa per risolvere tutti i suoi problemi, perché la malattia si può guarire solo in questa maniera).
Compiendo il delitto, Michele uccide se stesso e la propria pazzia e può adattarsi al linguaggio vigente e al mondo dei savi come una rinascita.
Succede però che sia Teresina a salvare Luigi, dopo aver rivelato allo studente e a tutti gli altri la malattia mentale del fratello. Michele non è un cattivo, appena vede sua sorella, il suo sguardo si accende di una docilità da cagnolino e lascia cadere la roncola con cui voleva decapitare lo sfaccendato, dimenticandola come tante altre cose. Prima di uscire di scena stringe le mani salutando tutti i personaggi terrorizzati da lui, e per ultimo il suo sguardo si posa su Luigi.
È il momento di un'invettiva significativa contro il ragazzo, un atto di accusa o un grido d'aiuto che non può non toccare lo spettatore nel profondo, mentre tutti gli altri personaggi della farsa non capiranno ovviamente nulla.
"Tu qua stai? Vatténne 'o manicomio. Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito? Gli amici, i parenti, la famiglia ti possono compatire... ma a un certo punto si rassegnano e ti abbandonano... Vatténne 'o manicomio."
Così esce di scena il protagonista, e potrebbe essere un finale orientato di più verso la positività, coi personaggi che riprendono le loro giacche, declamando sentenze e giudizi di compatimento sulla sorte della povera Teresa. Uno spiraglio di empatia verso Michele? Invece no, poiché il finale è prepotentemente ambiguo e arriva proprio quando meno te lo aspetti.
La confusione dei personaggi che riprendono le loro giacche e non capiscono perché manchino i bottoni rinvia a più significati: ovviamente amplia la distanza tra loro e Michele, dato che non capiscono chi e perché ha compiuto il gesto di strappare tutti i bottoni.
E poi è una chiusa che la dà vinta proprio per questo al matto, che lo spettatore riconosce come l'unico personaggio veramente positivo proprio dopo il fallimento dei suoi propositi di socializzare e conformarsi a tutti gli altri, che continueranno, dopo la calata del sipario o il nero del teleschermo, con i loro contrasti, le loro liti e le loro bugie.
Nella versione televisiva del 1962 c'è un aggiunta molto importante nel finale, rispetto a quello del testo teatrale inserito nella "Cantata dei giorni Pari". Si deve sapere che aggiunte o cesure erano operazioni che Eduardo compiva sui propri testi con frequenza, e anche qui sta il loro fascino. Nello specifico, in "Ditegli sempre di Si" è molto più lunga ed elaborata la scena del tentativo del taglio della testa. Nel testo si risolveva in due battute a Luigi sulla panchina, in questa versione la cosa è molto più divertente è significativa: Michele ha una sorta di turbante in testa e la roncola in mano, striscia alle spalle di un Luigi terrorizzato che "gli dice sempre di si" assecondandolo per la paura, e si crede un fantomatico dottore di nome Omar Nixbey che vuole portare il "paziente" a Bombay via aereo (una carriola scassata) per operarlo e guarirlo definitivamente.
Sugli attori inutile sprecare altre parole: Eduardo De Filippo è straordinario e misuratissimo con i suoi tic e le sue stravaganze, bravissima anche Regina Bianchi nel ruolo della sorella e Antonio Casagrande in quello di Luigi. Fa una comparsata velocissima un Enzo Cannavale (nel ruolo del fioraio) che poi diventerà uno dei più grandi caratteristi del cinema italiano.
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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 03/01/2012 15.25.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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