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Onore, gloria e successo
sono solo granelli di sabbia
sparsa sulle strade di Yamato
calpestata per l'eternità.
Prologo. Da un punto di vista ribaltato (dietro le quinte) prende le mosse una rappresentazione di teatro Bunkaru: la cortigiana dal kimono rosso Umekawa si dispera per la sofferenza del suo amante. Onore e potere non sono nulla di fronte alle lacrime che lei sta causando a lui, impassibile di fronte ai suoi gesti e alla sua prostrazione. Fuggono o, meglio, lei lo spinge via, e si aggrappano infine a un albero. Tre uomini, di cui due mascherati, manovrano le bambole; tre storie dirige il burattinaio Kitano, che per questa occasione non fa mostra di sé sullo schermo. E le vere marionette del Bunkaru diventano simboliche spettatrici delle vicende umane.
Sei protagonisti per tre semplici eppure sofferte storie, che si sfiorano senza mai incontrarsi. Matsumoto e Sawako si amano, vogliono passare la vita insieme ma l'ingerenza dei genitori di lui e l'ostinazione amorosa della figlia del suo capo impediscono il prosieguo della loro storia; nel giorno del suo matrimonio combinato, Matsumoto scopre che l'amata ha tentato il suicidio perdendo la ragione.
Preda del senso di colpa e del rimpianto per la felicità perduta, abbandona la futura sposa e va a riprendere Sawako dalla clinica in cui è rinchiusa ma, pur avendola fisicamente con sé, non riesce a farla riemergere dal limbo in cui è caduta; come una bambola rotta, la ragazza vive rifugiata in un mondo senza contatti umani, in cui solo gli oggetti hanno un senso e le parlano linguaggi inaudibili dagli altri: mazzi di fiori, una farfalla morta, la sferetta di plastica di un gioco per bambini, angioletti di porcellana che sembrano avere vita propria all'interno dell'anonima camera d'albergo in cui Matsumoto crede di poter ricominciare la sua storia.
Ma ben presto comprende che l'unico modo per penetrare nell'oblio di Sawako è assecondarlo imitandolo, e allora eccoli divenire i vagabondi della corda rossa, legati eppure lontanissimi, entrambi bambole inanimate, peripatetiche e mutanti travestimento e cromie col trascorrere delle stagioni.
Lungo il loro tragitto senza meta, durante cui il passo di Sawako diventa sempre più meccanico, sfiorano il cancello d'ingresso della casa di Hiro, anziano boss della yakuza che sta arruolando un nuovo adepto. L'amore è un intralcio, se vuoi far parte della yakuza, dice il giovane appena indottrinato... e Hiro non può che tornare col pensiero alla ragazza che lasciò proprio per aver fatto lo stesso pensiero, trent'anni prima.
Una ragazza che, invecchiata ma immutata, lo attende ogni sabato seduta sulla stessa panchina dello stesso parco. Una donna senza presente, anch'essa una bambola che ripete ossessivamente i medesimi gesti in modo quasi cabalistico, come ben sa il vicino di casa a cui, ogni settimana e con la stessa frase, consegna il pranzo premurosamente preparato e mai consumato dall'amato perduto. Una marionetta che, solo nel giorno in cui il burattinaio beffardo deciderà di toglierle l'effimera felicità appena conquistata, si cambia l'abito che per trent'anni ha indossato in attesa del fidanzato, nel timore che egli non la riconoscesse.
Una bambolina dello star system è invece Haruna, cantante di successo e prototipo della liceale-feticcio giapponese, venerata dai suoi fan e soprattutto da Nakui. La favola della ragazza si interrompe bruscamente il giorno in cui un grave incidente la costringe al ritiro: incapace di sopportare il peso del suo viso non più perfetto, si rifugia su una spiaggia, lontana da tutto.
Come in "Un chien andalou" (ma anche come nel nostrano "Almost blue"), Nakui si acceca con una lama pur di poter avvicinare ancora una volta il suo idolo senza farle subire l'onta di uno sguardo. Ma mentre, tra il profumo delle rose e la risacca delle onde, sta per conquistarne la fiducia, il destino si mette in mezzo e infrange la felicità sul punto d'essere conquistata.
Il tema dominante di "Dolls" è certamente quello dei vagabondi della corda rossa, che attraversano camminando impassibili ogni vicenda, come simboli eterei dell'impossibilità di amare, del tempo perduto, delle occasioni mancate o colte troppo tardi, della frustrazione di non poter possedere l'oggetto del proprio desiderio se non privandosi di una parte di sé.
E sono i vagabondi gli unici che troveranno insieme una via d'uscita o, meglio, un'infinita sospensione - non scelta ma accidentale - dell'infelicità. Eppure anche in questo caso non esiste una conclusione positiva: la fine arriva nel momento sbagliato, proprio quando sembrava, in una notte di neve, che il velo dell'oblio stesse abbandonando la mente di Sawako.
Una pallina rosa soffiata in aria a fianco della luna, una corda purpurea che rastrellando le foglie cadute dagli aceri trova la prima neve, la carrellata su un rigoglioso bosco di alberi in fiore, l'acqua che scorre, il paesaggio che muta con le stagioni in splendidi scenari, i colori pieni e conturbanti su cui prevale il rosso (delle foglie d'acero, della corda, del sangue), il passaggio dei due vagabondi legati da un filo accanto a una distesa di girandole mosse dal vento, prospettive ribaltate (la spiaggia vista dal mare, la platea del teatro vista dal palco, rotazioni di camera a 180 gradi), due kimono appesi al vento che si "incarnano" nelle bambole del prologo teatrale: fotografia spettacolare, regia statica con estenuanti primi piani, montaggio a tratti fluido e a tratti interrotto da istantanee di quello che fu o che sarà.
La maestria di Kitano si mostra con tocchi raffinati, quasi pennellati tanto che il film sembra una sequenza di quadri, intrecciati eppure indipendenti e infatti legati da dissolvenze o stacchi improvvisi. L'insistenza sugli sfolgoranti paesaggi e sul fluire delle stagioni che quasi inghiottono la componente umana della vicenda - assieme istanza estetica e componente sostanziale - è dominante nella narrazione, ed è un tema caro ai registi orientali, come dimostra il successivo "Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera" del coreano Kim Ki Duk.
Si può dire che proprio la componente tecnica, che si fa poesia narrativa, sia la cifra più rappresentativa di quest'opera di Kitano: indubbiamente figlio della sensibilità e della cultura giapponese, "Dolls" non riesce a presentarsi come un'opera "universale". E' necessario coglierne l'essenza intimamente orientale e, soprattutto, condividerla: l'uomo imprigionato nelle convenzioni comportamentali della cultura nipponica, alle prese con i sentimenti è un burattino mosso dai fili del destino, mai completamente padrone delle proprie azioni e libero solo nell'incorporeità o nella morte, quando a quel destino si consegna completamente.
Chi non si addentra nella logica del regista rimane distante dalla comprensione di quest'opera, ma non può non restare affascinato dalla maniera sublime in cui è stata costruita.
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Recensione a cura di martina74 - aggiornata al 10/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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