Recensione domenica maledetta domenica regia di John Schlesinger Gran Bretagna 1971
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Recensione domenica maledetta domenica (1971)

Voto Visitatori:   7,38 / 10 (8 voti)7,38Grafico
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locandina del film DOMENICA MALEDETTA DOMENICA

Immagine tratta dal film DOMENICA MALEDETTA DOMENICA

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Nel 1971, reduce dal successo americano di "Un uomo da marciapiedi", il regista britannico naturalizzato americano John Schlesinger realizzò quello che ancora oggi, a 39 anni di distanza, viene considerato un autentico e indiscusso capolavoro: "Domenica, maledetta domenica". Un film passato alla storia per il modo esplicito, inconcepibile all'epoca, con cui racconta le vicende d'amore e di dolore di un uomo e di una donna per lo stesso uomo.

La cosa che all'epoca fece scalpore non fu tanto il fatto che il film raccontasse di un triangolo amoroso, ma che due lati di quel poligono fossero rappresentati da due uomini.
Fu proprio questo particolare che, a suo tempo, scandalizzò il pubblico conformista e fece sì che la pellicola fosse osteggiata dalla distribuzione, finendo per essere fallimentare dal punto di vista commerciale. Per fortuna una parte della critica internazionale riconobbe il valore dell'opera, che affermava pari dignità ad un'altra forma d'amore, trattato per la prima volta con misurata naturalezza e lontano dagli stereotipi che hanno caratterizzato tanto cinema similare, precedente e successivo, al punto che oggi, a buon diritto, può occupare un posto di primo piano nell'elenco dei film che hanno fatto la storia della cinematografia mondiale.

Ma il film di Schlesinger è notevole anche per l'introspezione psicologica che fa dei personaggi, soprattutto dei due protagonisti principali, mentre il terzo, lo sfuggente Bob, viene lasciato un po' in ombra, come forse è giusto che sia, e per rappresentare perfettamente il clima culturale dell'Inghilterra dei primi anni '70, segnato dalla rivoluzione dei costumi e influenzato dalla ventata rivoluzionaria del ribellismo del '68.

La vicenda, come detto, ruota intorno a tre personaggi: Daniel Hirsh, Alex Greville e Bob Elkin.

Daniel, il più anziano dei tre, è un medico di mezza età (proprio da una visita medica la vicenda prende inizio), colto, raffinato, ebreo ed omosessuale.
Alex è una borghese che ha superato la trentina, avvocato e consulente del lavoro, reduce da un sofferto divorzio e desiderosa di colmare il conseguente vuoto affettivo. Bob è giovane, bello, vanesio, artistoide e designer, sessualmente ambiguo (oggi si direbbe bisex).
Daniel vive la sua condizione sessuale con consapevolezza ed anche con rigore e senza eccessi, lasciando che il tempo, scandito dall'ipocondria dei suoi pazienti, faccia il suo corso e allevii la solitudine che grava su di lui. Alex invece, che si è fatta condizionare maggiormente dai suoi fallimenti professionali e sentimentali, dopo il divorzio e dopo le dimissioni dal lavoro, vive questa specie d'amore con caparbio attaccamento, barattando il sesso con un barlume di affetto, consapevole che probabilmente questa è l'ultima possibilità che la vita le offre.

Daniel ed Alex all'inizio non si conoscono personalmente, ma un filo sottile lega le loro esistenze: sono ambedue profondamente innamorati di Bob, che non si fa alcun problema dal passare dal letto dell'uno a quello dell'altra, incurante della sofferenza che procura ad entrambi quando scoprono la candita leggerezza con cui lui entra ed esce dalle loro vite.
Intimamente, Daniel ed Alex sanno che il giovane non apparterrà mai completamente a ciascuno di loro, lo sanno e ne soffrono, ma accettano la situazione perchè sanno anche che l'abbandono da parte di Bob li rigetterebbe nella solitudine del deserto dei sentimenti. E si, perchè Daniel e Alex non possono rischiare: già gravati da un insopprimibile senso di frustrazione e di inappagamento, vissuti con stoica rassegnazione, sanno che stanno giocando la partita più importante della loro vita.
Le loro storie sono storie di perdenti, perché Alex esce da un fallimento sentimentale e Daniel è omosessuale in una società che lo fa diverso, in una minoranza. Le loro insoddisfazioni si traducono in una ineluttabile incapacità di comunicare, evidenziate dall'emblematico rapporto con la segreteria telefonica, che fa da tramite alle loro frustrazioni e alle loro malinconie struggenti, che stanno nel fondo degli amori impossibili.
La bellezza di Bob si rivela così vincente, ed è il raggio di sole che illumina il grigiore delle loro esistenze nel momento in cui le loro vite cominciano a sfiorire, e accentua il senso di solitudine che grava su di loro.
Ma quanta tristezza si nasconde dietro i sorrisi amari e dietro la felicità forzata di un rapporto frammentario, di cui, nonostante, sono incapaci di fare a meno.

Poi, però, un giorno, improvvisamente Bob annuncia la sua decisione di trasferirsi a New York, dove ha la possibilità esplicare e mettere a frutto il suo talento, fin tanto che è giovane, fin tanto che può non farsi condizionare dai sentimenti. E quando Bob parte i due rimangono soli a condividre lo stesso dolore in un'altra "maledetta domenica".
Partito l'amante, la donna reagisce facendosi coinvolgere in una malinconica relazione con un cinquantenne ammogliato che ha perso da poco il lavoro. Daniel, invece, subisce la pressione di parenti e amici che vorrebbero vederlo accasato con qualche brava ragazza ebrea come lui.

L'incontro tra i due avviene casualmente in casa di comuni amici, dove si troveranno a condividere la stessa amarezza e lo stesso rimpianto. Una scena bellissima, una pagina di grande cinema, due modi diversi di elaborare la sofferenza, due solitudini in una Londra grigia e in crisi economica.
Alex parla di rinunce: "Mi hanno sempre insegnato che qualcosa è meglio di niente. Ora è arrivato il tempo che niente dev'essere meglio di qualcosa".
Daniel si rivolge direttamente agli spettatori e, dichiarandosi felice, sostiene che: "La gente diceva che non sarei stato felice. Ma io sono felice, a parte il fatto che lui mi manca".
Entrambi feriti, entrambi disillusi, ma paghi della parte di felicità di cui hanno goduto, nonostante tutto, per aver amato.

Un film struggente questo "Domenica, maledetta domenica", che racconta la solitudine e le maledette domeniche dei cuori solitari, a cui non si riesce a dare un nome, ma che spesso finiscono per accentuare quel pesante senso di insicurezza e di insoddisfazione che gravano e condizionano le loro esistenze.
Ma il film è anche la rappresentazione di una duplice storia d'amore che Schlesinger racconta con delicato pudore anche se con estremo verismo. Perché c'è molto di vero (e di attuale) in questo complicato e difficile triangolo amoroso, che coglie all'interno di una realtà sociale una complessa realtà mentale. Tre punti di vista e tre cavie per tre forme d'amore, che si attorcigliano tra le pieghe della oggettività quotidiana.
Il regista e la sceneggiatrice Penelope Gilliat (già moglie di John Osborne) scelgono un tempo ben preciso e ristretto (due weekend e la settimana di mezzo) per mettere a punto quel romanticismo malinconico che accompagna gli amori vissuti da coloro che vivono quotidianamente la drammaticità irrisolta e irrisolvibile.
Non sorprende, dunque, che all'epoca il film fece discutere e scandalizzò i benpensanti, che trovarono immorale la rappresentazione di una società in irreversibile evoluzione dei costumi e l'esibizione esplicita dell'omosessualità; d'altra parte ancora oggi si vivono pregiudizi culturali e religiosi (la celebrata Oriana Fallaci definiva gli omosessuali "cicale" divorate dalla stizza di non essere del tutto femmine), che ancora oggi si appellano con epiteti offensivi e si ricorre a comportamenti discriminatori nei confronti di coloro che scelgono di vivere una sessualità diversa e chiedono di poter avere un percorso di felicità e di potersi integrare nella società.

La mirabile introspezione psicologica dei personaggi è sottolineata (e nobilitata) dalle splendite interpretazioni di Peter Finch e Glenda Jackson, veramente straordinari nella rappresentazione dei loro variegati e mutevoli stati d'animo, manifestati con un incredibile campionario di tonalità espressive, sospensioni, sguardi, piccole azioni quotidiane, sottili sfumature, gesti misurati e parole soppesate, anche nei momenti più sentiti e più dolorosamente coinvolgenti.
A loro fianco Murray Head, un allora giovane attore britannico che ha brillato solo per una breve stagione e che non ha più saputo ripetere (o non ha avuto l'opportunità di ripetere) la ottima prova fornita nel film di Schlesinger, nel ruolo del giovane e brillante artista vanitoso e superficiale, che si districa tra i due amanti delusi con disinvolta noncuranza, incapace di comprendere e valutare il dolore che la sua vacuità procura ad entrambi.

Si percepisce ancora, dopo tanti anni, il sapore di autenticità di un'opera minimalista, che si dimostra ancora di sconcertante attualità e di grande impatto emotivo.
Un film da riscoprire in tutto il suo fascino inquieto.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 04/02/2010

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