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Chi ha visto "Jules et Jim" di Truffaut, non può non appaiare il fatidico film del Maestro francese all'operetta "poetica" di Davide Ferrario, per via dello strano triangolo erotico-sentimentale: lui, lei e l'altro, che si amano a turno, di comune accordo. Lei, Amanda, è una giovane socialmente "disagiata", alla ricerca perenne di una stabilità lavorativa, economica, sentimentale ed esistenziale: emblema attualissimo di una certa gioventù nostrana, senza arte né strumenti. L'altro, Angelo, 'o malamente, proviene come lei dalla zona più popolare di Torino, e vive di espedienti e furti d'auto, con l'aplomb del bullo di quartiere da neorealismo italiano; non disdegna altre avventure, ed usa la povera Amanda per il suo puro comodo. Salvo poi rincorrerla affannosamente quando la sa innamorata del giovane rivale. Il quale Martino, invece, è tutt'altro personaggio, ai limiti del surreale: fa il guardiano notturno al Museo del Cinema, all'interno della Mole Antonelliana del capoluogo torinese, conducendo una vita solitaria con un riserbo quasi autistico. Ma quando la ragazza, inseguita dalla polizia, si rifugia sotto la Mole, non indugia un solo momento ad accoglierla sotto la sua protezione; da cui, dunque, il folgorante innamoramento.
Ma l'amore a tre, che i giovani mettono in piedi, non costituisce il vero perno del film, come nel caso di Jules et Jim, ma una semplice componente, raccontata inoltre per brevi sfumature e senza eccesso di dettagli; non coi toni sfumati e romantici del film francese, come se sui tre amanti incombesse un destino erotico ineluttabile, ma coi modi ironici e scherzosi di tante commedie all'italiana di Wertmulleriana memoria.
In realtà la specialità del film sta nella curiosa trovata dell'ambientazione all'interno del Museo del Cinema. All'ombra dell'austero monumento, nell'atmosfera grave e rarefatta che chi ha visitato la Mole ben conosce, il giovane vive come i fantasmi della leggenda nei castelli abbandonati; come una presenza puramente spirituale nella materia greve e fredda che lo circonda. Si muove silenziosamente di notte sulle scale solitarie della antica sinagoga, "frequentando" gli antichi reperti del cinema muto e in bianco e nero, come i momenti virtuali della sua vita psichica; quasi che le sue vicende esistenziali ed emotive non ne fossero altro che una semplice derivazione (a conferma il fatto che il ragazzo viva addirittura dentro la Mole, in un micro appartamento realizzato come un set cinematografico).
Dunque il cinema come finzione del reale, oppure la realtà come apparenza fenomenica che il cinema non simula, ma in effetti racconta?
La domanda, forse, è quella che travaglia il regista Ferrario, che sembra quasi, con questa opera voler emblematizzare una sua personale "schizofrenìa", a cavallo tra l'onirico e il reale.
Ci riesce, indubbiamente, usando la fascinazione della fiaba, con personaggi surreali nel "bosco incantato" della Mole, con principi buoni e cattivi per la Biancaneve sperduta, con un racconto che in parte spaventa (per la morte improvvisa e violenta), e in parte sorprende (con lo "gnomo" lavavetri che spiove sospeso dall'alto della mole ). Una fiaba però condita di ironia e divertimento, con personaggi curiosi e brillanti, da commedia all'italiana.
Ma chissà che proprio in questa miscellanea di elementi tanto eterogenei non stia il limite del film, non poi così serio, né poi così scherzoso. Valido forse infine solamente a confermare l'assunto di base del cinema come antifaccia del reale; e che potrebbe suonare semplicemente come
autolegittimazione del regista e dei suoi compari cinefili nell'insieme.
Da apprezzare però, comunque, come esperimento di filmografia inventiva e, soprattutto, a basso costo (girato in digitale).
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 28/04/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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