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"Caro Federico, ho fatto un sogno,
tu che mi sorridevi e con i tuoi occhi,
accarezzavi il mio cuore
tenendomi tra le tue braccia"
(Lino Aldrovandi)
Quando la mattina del l'11 novembre 2007, Gabriele Sandri, un giovane tifoso della Lazio, che si stava recando a Milano per assistere alla partita della sua squadra contro l'Inter, venne ucciso da un colpo di pistola sparato da un poliziotto, nell'autogrill di Badia al Pino, sull'A1 vicino Arezzo, un giovane amico del Sandri, rivolto agli agenti, riuscì a gridare sconvolto solo una frase grammaticalmente sconnessa: "è stato morto un ragazzo".
Da qui il titolo del film documentario di Filippo Vendemmiati, giornalista RAI dell'Emilia Romagna, su un'altra morte assurda, sempre per mano di poliziotti dalle pallottole o dai manganelli facili, quella del diciottenne Federico Aldrovandi, avvenuta all'alba del 25 settembre 2005.
Federico, che aveva appena raggiunto la maggiore età, quella mattina stava tornando a casa, a Ferrara, di ritorno da Bologna, dove si era recato con un gruppo di amici per passare una serata diversa (forse per assistere ad un concerto). Salutati gli amici si era incamminato a piedi verso casa, quando, giunto nei pressi dell'ippodromo, in una strada chiusa (via dell'Ippodromo, appunto) viene intercettato da una volante della polizia, chiamata da una donna che segnalava la presenza di un ragazzo che "sbatteva dappertutto".
Arrivati sul luogo i due agenti della volante, non si sa bene come e perchè, ingaggiano con il ragazzo una violenta e lunga colluttazione, tanto da richiedere l'intervento di una seconda pattuglia in rinforzo ai primi due poliziotti.
A questo punto tutto diventa confuso e contradditorio.
Quel che è certo è che Federico da quell'incontro ne è uscito cadavere. Viene chiamata un'ambulanza e quando i medici arrivano trovano un ragazzo riverso a terra, incosciente e con le mani ammanettate dietro la schiena. "Era incosciente e non rispondeva", scriverà il medico nel rapporto. Per Federico non c'era più nulla da fare: era morto per "arresto cardio-circolatorio e trauma cranio-facciale", come dirà la versione ufficiale, e come tentano di far passare le forze dell'ordine, per quella che poi verrà accertato essere stata una vera e propria "operazione di macelleria messicana" (è con queste parole che il vice questore Michelangelo Fournier descrive quello che vide al momento dell'irruzione nella scuola Diaz di Genova in seguito al G8 del 2001). Alle 7 del mattino i genitori di Federico, preoccupati per il mancato ritorno a casa del figlio, cominciano a chiamare il suo cellulare, che squilla a vuoto, finchè non risponde un funzionario di polizia, il quale dichiara che le forze dell'ordine stanno effettuando una serie di accertamenti.
Alcune ore più tardi babbo e mamma Aldrovandi apprendono da Nicola Solito - l'agente della Digos e amico di famiglia (anche Lino Aldrovandi è agente di polizia) che per primo scoprì l'identità del ragazzo riverso sull'asfalto con il corpo coperto di lividi causati dalle manganellate dei quattro terminator in divisa - la notizia della morte di Federico.
Il ragazzo viene accusato di essere "fatto" nel momemto del fermo dei poliziotti, di aver reagito come una furia al loro alt, di essersi procurato da solo le fratture e le tumefazioni che l'hanno portato alla morte. L'inchiesta sembra destinata all'archiviazione, se non fosse che i genitori di Federico non credono assolutamente alla ricostruzione dei fatti, operata dalla prima perizia disposta dai pm, secondo cui il ragazzo sarebbe morto in seguito ad un malore provocato da overdose: il corpo sfigurato del ragazzo, i risultati delle analisi che contrastano con la versione ufficiale e con le testimonianze, i primi sospetti sui quattro poliziotti, le contraddizioni, i depistaggi, l'attenzione mediatica, a poco a poco fanno emergere una scomoda verità per le forze dell'ordine.
Aprono, allora, un blog per far emergere la verità sulla tragedia e per chiedere giustizia, e pubblicano le foto del figlio, il corpo tumefatto riverso per terra in una pozza di sangue. Lo fanno senza lacrime e senza comparsate nei salotti tv, per riappropriarsi dell'immagine del loro Federico e per restituirgli quella dignità che gli era stata rubata.
Da lì inizia la loro battaglia, prima mediatica poi giudiziaria, che porterà i quattro poliziotti prima ad essere iscritti nel registro degli indagati, poi ad essere accusati e infine ad essere condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo nell'omicidio del ragazzo.
Il film di Filippo Vendemmiati ripercorre le vicende, umane e giudiziarie, di quel tragico avvenimento e tenta di fornire una spiegazione dell'accaduto, partendo proprio dai tanti interrogativi rimasti insoluti.
Racconta di una notte di ordinaria, vergognosa follia in cui quattro poliziotti, che avrebbero il dovere di aiutarti e di proteggerti, danno libero sfogo ai loro istinti primordiali, tenendo schiacciato sotto di loro il ragazzo, a faccia in giù, picchiandolo ripetutamente con i manganelli, incuranti delle sue implorazioni di aiuto (come testimonia la donna extracomunitaria che abitava proprio di fronte, la quale vede tutto, ma che non ha il coraggio di rendere questa dichiarazione nelle prime fasi del procedimento, temendo non le venga rinnovato il permesso di soggiorno,).
Racconta della ricostruzione degli agenti che fermarono Federico, una autentica falsità su un ragazzo che ha reagito come una furia al loro ordine di fermarsi, di un ragazzo drogato e in preda alle allucinazioni, che li ha aggrediti e costretti a difendersi, delle loro telefonate ai centralini di questura e carabinieri, delle intercettazioni, delle intimidazioni contro la famiglia, del tentativo di demolire la reputazione di Federico e dei suoi amici, descritti come sbandati e tossicomani.
Il film racconta i fatti accertati e i misteri che li avvolgono, le contraddittorie testimonianze, i colpi di scena, i brani letti dagli amici in un teatro vuoto.
Il giornalista-regista si è prefisso l'obiettivo di raccontare la storia e non la notizia ed, attraverso la visione di filmati dell'epoca, la lettura di dei giornali di quei giorni, le testimonianze degli amici e dei familiari, un'analisi postuma degli aspetti caratteriali di un ragazzo come tanti, è giunto alla conclusione di realizzare un documentario che è insieme una ricerca di verità e giustizia, e un gesto simbolico contro i poteri forti e contro la deriva fascistoide-reazionaria che ancora oggi agita una larga fetta delle nostre forze dell'ordine, carabinieri e polizia.
Vendemmiati, nel suo documentario, narra la breve vita di Federico Aldrovandi: dall'infanzia agli ultimi istanti di vita, la sua tragedia e quella dei suoi genitori, l'incredulità e poi il dolore e la rabbia del fratello e degli amici, i loro racconti in aula, le tesi alternative al pestaggio.
Poi ci sono loro, i quattro poliziotti, che per la prima volta, in tribunale, devono guardare in faccia Lino e la moglie Patrizia, le loro voci flebili, i loro volti tagliati dall'inquadratura, che a noi non è dato vedere.
Infine c'è la lettera di Nicola Solito, il poliziotto amico di famiglia che si assunse il compito di comunicare la notizia della morte di Federico ai genitori. Toccante, intensa, indirizzata a Federico, in cui gli chiede scusa per avere vissuto per anni con l'angoscia di aver anteposto il ruolo di poliziotto a quello di amico del padre e della famiglia tutta.
Il documentario, poi, lascia emergere molte ombre sui mezzi di informazione - e in particolare sulla stampa locale, accusata quasi di aver colpevolmente distorto, storpiato, alterato i fatti e sorvolato sulla tragedia, nonostante i ripetuti appelli dei due genitori, che avevano cercato invano di tenere alta l'attenzione sulla tragica morte del figlio - e sugli abitanti di Ferrara, accusati di omertosi silenzi e di scarso interesse verso una tragedia privata che è anche una tragedia collettiva, perchè figlia di quella crisi di valori che attanaglia la nostra società. Perchè figlia dell'approssimazione, della scarsa professionalità, della mancanza di mezzi e di adeguata preparazione delle nostre forze dell'ordine, delle loro paure delle loro ansie della loro incapacità a svolgere un compito scelto, spesso, più per bisogno che per effettiva e autentica vocazione.
Il film, con la stridente espressione grammaticalmente scorretta del titolo, che sintetizza perfettamente quel senso di rabbioso smarrimento che prende di fronte ad una morte tanto assurda quanto colpevole, è un atto d'accusa verso le "istituzioni", le quali, nonostante la sentenza di 1° grado abbia riconosciuto colpevoli i quattro poliziotti, non ha mai provveduto a sospenderli dal servizio d'ordine, limitandosi soltanto a trasferirli altrove dove tutt'ora indossano quella divisa.
Loro, i quattro poliziotti, che pestano a morte un ragazzo, ne lasciano il corpo senza vita al sole e scoperto, che decidono di avvisare la famiglia solo cinque ore dopo, che al telefonano raccontano: "Abbiamo a che fare con un pazzo di cento chili che ci è saltato addosso, ci ha spaccato anche la macchina, cioè l'abbiamo bastonato di brutto, solo che adesso è mezzo morto, è svenuto, e ora ci vorrebbe della benzina per far sparire tutto".
Loro, Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani, Luca Pollastri, che sarebbero ancora quattro integerrimi poliziotti, perchè, come dice Filippo Vendemmiati, se cinque anni fa fosse stata in vigore la legge bavaglio - che impedisce di pubblicare atti, foto e intercettazioni - non si sarebbe mai scoperta la verità sulla morte di Federico Aldrovandi, nè quella di altri casi simili.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 22/06/2011 15.46.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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