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"Il mio regista preferito su tutti, colui che mi ha maggiormente ispirato è Howard Hawks. Un dollaro d'onore, gli avventurieri dell'aria, El dorado, e quasi tutte le sue opere mi hanno influenzato, non solo per la capacità di direzione degli attori, ma anche per i suoi sentimenti verso la vita e il modo di esprimerli nei film." John Carpenter
E' inutile girarci troppo intorno.
"Ghost of Mars", nonostante l'approccio apparentemente horror-fantascientifico, è a tutti gli effetti un Western. C'è l'uomo bianco, invasore di terre sconosciute e inesplorate, c'è il legittimo proprietario, il "diverso", o meglio il classico indiano.
C'è Marte, che con le sue distese immense si va a sostituire perfettamente al classico paesaggio americano.
Infine, ancora una volta c'è Hawks.
Il film può essere visto come l'ennesima variazione sul pessimismo carpenteriano, in chiave puramente classica; un ristretto gruppo di uomini, ancora una volta un assedio in una zona isolata, e ancora un anti-eroe, incapace di credere nel sistema ("Per me un detenuto e un poliziotto sono la stessa cosa" ci dice il protagonista Ice Cube), che richiama da vicino Napoleone Wilson.
La pellicola è insomma, almeno da questo punto di vista, una rivisitazione, un riassunto delle tematiche carpenteriane.
In "Ghost of Mars" tuttavia l'apocalisse è già avvenuta. Il "male" ha già vinto.
Se in "Fuga da L.A." il regista quasi invocava la fine della civiltà moderna, con lo spegnimento di ogni forma energetica sul pianeta terra, nella sua ultima pellicola Carpenter sceglie Marte per ambientare la vicenda. La terra non c'è nemmeno, vive solamente nei ricordi e nelle allucinazioni della sua protagonista (la grande e immensa onda marina). Gli uomini sono in sostanza una specie in via di estinzione, scacciati dal loro pianeta, in cerca di nuove terre dove stabilirsi e sempre in eterna lotta armata contro il "male".
Il cambiamento di ambientazione rispetto alla terra dunque non è casuale. In venti anni e più di carriera John Carpenter ci ha raccontato il male annidato in ogni angolo della società, dai cinici uomini politici (le "fughe"), alla letteratura ("il seme della follia") e ha sempre previsto e talvolta quasi desiderato la fine di ogni cosa, l'apocalisse.
Ora invece, quando sulla terra ogni cosa è scomparsa è Marte il luogo dove gli ultimi uomini continuano la lotta.
E questa battaglia è condotta in una società che è incapace di sopravvivere a se stessa, se non mutandosi continuamente, da teocratica in "Fuga da L.A." a matriarcale in "Ghost of Mars".
Nonostante le tematiche apocalittiche alla Carpenter il film non è solo l'ennesimo omaggio al cinema hawksiano, ma ne rappresenta quasi un confronto, una specie di sfida.
E' vero che la presenza femminile nella pellicola ha un ruolo importante, mai secondaria a quella degli uomini, anche nell'uso della forza.
E' anche vero tuttavia che il personaggio femminile è apparentemente forte, decisa e sicura di se, ma in realtà tale sicurezza vela una grande fragilità. La modella Natasha Henstidge -non brava, ma decisamente molto bella- dovrebbe rappresentare la tipica forte eroina hawksiana, ma in realtà è costantemente strafatta di pasticche.
E ancora le schermaglie tra i sessi che, come in ogni pellicola di Hawks, scandiscono in modo ironico "Ghost of Mars", sono fonte di ambiguità. Nelle commedie del maestro la superiorità femminile e l'umiliazione del maschio erano evidenti. Qui ciò non accade. La donna cede anche alla tentazione, dopo i numerosi tentativi di "avance" da parte di uno dei soldati.
Insomma in questa pellicola vi è il tipico "eroe", carpenteriano, a confronto con una sorta di eroina, che in modo solo apparente assomiglia alla classica donna hawksiana, ma che è, ne più ne meno, identica agli altri uomini.
Ci sono poi altri aspetti interessanti della pellicola di Carpenter.
Innanzitutto il cambiamento di registro narrativo rispetto alla pura classicità. Per la prima volta nella sua carriera il regista rompe del tutto la linearità, fatta a pezzi dall'uso costante del flashback. Ci troviamo di fronte in sostanza ad un film polifonico. Come in "Rashmon", un evento (ad esempio quello che precede la morte di Pam Grier) è focalizzato da diversi testimoni, chi in maniera diretta (la protagonista), chi in maniera indiretta (il sergente).
Un'altra novità consistente nella filmografia di Carpenter è l'utilizzo del digitale per la creazione del "fantasma", che contribuisce a dare un tocco di modernità alla vicenda e che, come dice il regista non ha nessuna implicazione teorica.
Infine la scelta delle musiche. Rilevante è il cambiamento rispetto a "Vampires". Il regista, come sempre autore anche della soundtrack, sceglie questa volta delle sonorità quasi sempre pesanti, heavy metal, che irrompono nelle scene di battaglia.
Per concludere "Ghost of Mars" è una pellicola da non perdere sia per gli amanti di Carpenter, che per quelli di Hawks.
Ma anche il semplice spettatore non ne rimarrà deluso. La pellicola è certo molto cupa, ma fonte di grosso spettacolo.
John Carpenter ancora una volta si è dimostrato uno dei migliori tra tutti gli autori americani contemporanei.
Solo lui, con pochi altri, conosce alla perfezione tutti i più grandi maestri del cinema americano, e non mi riferisco solo ad Howard Hawks. Pensiamo a Nicholas Ray ("Johnny Guitar", altra fonte di ispirazione ) e sopratutto al maestro nipponico Akira Kurosawa (notate tutti i flashback talvolta anche sovrapposti che ricordano quelli del capolavoro "Rashmon").
Lo stesso autore ha definito il proprio film "Una specie di Rashmon nello spazio".
"Ghost of Mars" è infine una discreta opera con un budget estremamente ridotto, se lo confrontiamo con le attuali produzioni americane, è molto ironico, anche se non è niente di particolarmente nuovo nella filmografia del regista.
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Recensione a cura di Requiem - aggiornata al 07/07/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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