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Nel 1952, usciva nelle sale italiane il film di Alessandro Blasetti "Altri tempi", il cui ottavo e ultimo episodio reca il titolo "Il processo di Frine". Tratto da una novella di Edoardo Scarfoglio, l'episodio è rimasto celebre soprattutto perché Vittorio de Sica, nei panni dell'avvocato difensore di una prosperosa popolana accusata di omicidio (interpretata da una magnifica Gina Lollobrigida), ricorre all'espediente dell'oratore greco Iperide (secondo la tradizione amante della cortigiana Frine) mostrando ai giudici le brucianti attrattive della bella imputata. In quella circostanza, e in contrapposizione con l'espressione 'minorato psichico' (frequentemente usata nei processi per ottenere assoluzioni altrimenti difficili), venne coniata la definizione di 'maggiorata fisica' che segnerà di fatto un'epoca e sarà largamente utilizzata per tutti gli anni '50 e per buona parte degli anni '60.
Erano gli anni in cui in Italia si diffondeva il genere péplum: e vi è ragione di credere che proprio il successo del film di Blasetti, con la sua trasposizione in chiave moderna delle note disavventure di Frine, abbia indotto gli Studi di Cinecittà a interessarsi alla figura dell'etèra greca, al punto di produrre, l'anno successivo, il péplum dal titolo (invero poco appropriato, essendo la protagonista originaria della Grecia centrale) "Frine cortigiana d'Oriente".
Il regista era Mario Bonnard, ma nei credits figura come aiuto-regista il giovane Sergio Leone, che è anche uno degli sceneggiatori (con Bruno Baratti, Mario Bonnard, Cesare Ludovici, Nicola Mannari e Ivo Perilli). Nonostante il titolo infelice (probabilmente dovuto a ragioni di cassetta), il film è uno fra i più interessanti del genere. L'uso del bianco e nero è un intelligente escamotage, grazie al quale non solo si evita il cromatismo chiassoso tipico del filone péplum e in genere sgradito all'occhio moderno (avvezzo, winckelmannianamente, a immaginare una Grecia fatta di marmo bianco), ma si confondono in un insieme tutto sommato armonico forme e contorni dei vari arredi, non sempre convincenti se considerati singolarmente. Belli gli interni delle case private (pur se troppo sontuose per essere case greche, per quanto appartenenti a persone ricche) e gradevoli i costumi, stilizzati e in genere non ridicoli, anche se appare eccessivo il ricorso a palandrane e copricapi orientaleggianti.
Per quanto riguarda la storia, aspettarsi un'approfondita analisi delle fonti (di difficile interpretazione perfino per gli storici) sarebbe davvero pretendere troppo: nondimeno, il plot è tutt'altro che arbitrario e, sia pure con scorciatoie e aggiustamenti, ricostruisce le peripezie di Frine con una certa coerenza e senza perdere di vista le testimonianze letterarie. Frine viene infatti presentata come una ragazza di origine nobile, in fuga dalla Beozia verso Atene in séguito a complesse vicende politiche.
Nonostante l'aggiunta di dettagli romanzeschi, tale premessa potrebbe non essere lontana dal vero, salvo il fatto che nel film l'inizio della carriera di Frine viene fatta coincidere, poco plausibilmente, con la distruzione di Tebe da parte di Alessandro Magno, che sicuramente avvenne qualche decennio più tardi (335 a.C.). In Atene la ragazza, con l'aiuto di un abile ma infido mezzano, diviene una cortigiana avida e altezzosa e, ben presto, anche incredibilmente ricca (ottima la caratterizzazione del mercante ridotto sul lastrico, che si ispira ad un frammento del poeta comico greco Timocle); ella però, generosamente, usa le proprie ricchezze per aiutare i profughi di Tebe e addirittura (come nella tradizione) si offre di ricostruire a proprie spese la città a patto di vedere il proprio nome inciso sulla porta di essa.
L'arconte basileus (= "arconte re", magistratura di primo piano nell'Atene del tempo) rifiuta l'offerta e la cortigiana, mal consigliata dal perfido lenone, cerca di suggestionare il popolo presentandosi sacrilegamente come Afrodite alle feste di Eleusi. Di qui il famoso processo (celebrato questa volta correttamente davanti all'Eliea e non all'Areopago, come pretendeva l'art pompier francese), in cui un giovane e passionale Iperide, ingiustamente geloso dello scultore Prassitele, accetta di difendere la donna amata, dopo avere chiarito i malintesi con Prassitele, cui in realtà la bellezza di Frine era stata solo fonte di ispirazione per l'immortale Venere di Cnido. In un serrato contrasto fra 'innocentisti' (schiavi, cortigiane e, soprattutto, profughi di Tebe) e 'colpevolisti' (aristocratici ateniesi benpensanti e ipocriti), il dibattimento si snoda tra incalzanti colpi di scena, sino all'inevitabile happy end.
Non mancano, evidentemente, errori (si parla perfino di un senato!) e ingenuità (a dir poco approssimativo l'uso della grafia antica, come sempre nel genere péplum): ma la sceneggiatura solida e l'ottimo ritmo narrativo fanno sospettare una presenza di Leone più rilevante di quanto i credits potrebbero far supporre (del resto, è di Leone, e non di Bonnard, il film "Gli ultimi giorni di Pompei" del 1959).
Molto bella la sequenza della fuga di Frine tra i boschi, ed in particolare l'immagine di lei che si china su un ruscello per bere; intensi e suggestivi i primi piani delle comparse (come poi in tutto il cinema leoniano); ben realizzate, seppure un po' stereotipe, le scene di danza (di ispirazione vagamente simbolista e parnassiana).
Incisiva, anche se priva di riscontri nell'aneddotica antica, la scena di Frine che acquista per poche dracme il proprio polemico 'nome di battaglia' ('Frine', ossia 'rospo'), da una comune prostituta di piazza, ed insolita, rispetto al filone péplum, la presenza di schiavi e cortigiane di colore. La maggiore delusione è costituita proprio dalla 'scena madre' della svestizione di Frine davanti ai giudici: per sfuggire alle pastoie della censura, la regia non trova infatti di meglio che mostrare la bella Elena Kleus di spalle, evitando di evidenziare sia la reazione emotiva della donna che quelle degli astanti, sino al finale davvero troppo edificante.
Con i due film degli anni '50, Frine entrava di diritto nell'universo della comunicazione moderna. In tempi recentissimi, questa tendenza ha trovato conferma in quella che è forse la più sapida e irriverente tra le rivisitazioni in chiave visuale del personaggio: si tratta di una illustrazione dal libro "Il pittore e la modella" di Milo Manara.
Frine, ovviamente, è ricordata come modella di Prassitele, ed è a lui che soprattutto fa riferimento il noto cartoonist, anche se il personaggio raffigurato è Iperide -anzi, per l'esattezza, l'Iperide del pittore francese Gérôme, qui sottoposto a graffiante parodia. Da parte del creatore della 'pin-up art', un ulteriore esempio di caleidoscopico citazionismo; da parte della contemporanea mass culture, una conferma dell'intramontabile successo della più antica modella il cui nome si sia conservato fino a noi.
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Recensione a cura di frine - aggiornata al 13/06/2006
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