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Esiste una discutibile tendenza americana a trasformare tutti i suoi presidenti in miti immortali, manifesti di un'epoca o personaggi immorali. Mentre alcuni presidenti nascono sotto la buona stella della benevolenza della stampa americana - vedi Obama, il cui processo di beatificazione ha preceduto la sua azione politica - ad altri, come Nixon, è spettato il ruolo di vittima, sebbene "sui generis".
"Frost-Nixon" nasce come tentativo,perfettamente riuscito, di ridare, se non un riscatto, almeno una esatta collocazione storica ad un presidente che si è reso protagonista del più grande scandalo politico della storia americana: il "Watergate".
Davanti ai tanti detrattori del cinema americano, Frost-Nixon è un concentrato di pregi della cinematografia d'oltreoceano, una risposta a chi tende a dividere gli Usa in cinema commerciale e cinema d'impegno.
Ron Howard non è certamente un regista che si ricordi per il suo spirito innovativo o per il talento visionario; da sempre è un onesto mestierante della macchina da presa, capace di alternare grandi blockbuster come "Apollo 13", "Il codice Da Vinci" o "Angeli e Demoni" (in uscita anch'esso nel 2009) a pellicole più impegnate, ma sempre con un'impronta hollywoodiana, come "A Beautiful Mind" o "Cinderella Man".
Con "Frost-Nixon" la sua vena creativa raggiunge finalmente livelli considerevoli, probabilmente perché liberandosi dagli schemi di un certo cinema commerciale si pensa meno al pubblico e più al contenuto sperimentando anche nuove forme di linguaggio.
Richard Nixon è stato uno dei più controversi presidenti della storia americana, e lo scandalo Watergate ha rappresentato la fine di un'epoca, il risveglio dell'America da quella che era considerata l'unica vera democrazia e come tale portatrice della perfezione.
Come spesso (sempre) accade, le magagne dei grandi uomini politici vengono sempre occultate, ed anche il Watergate fu insabbiato dal successivo presidente Ford - che sottrasse Nixon da qualsiasi procedimento giudiziario - ma non da quello mediatico.
Ron Howard e lo sceneggiatore Peter Morgan traggono il film dalla figura di David Frost, mediocre giornalista impegnato principalmente in gossip e piccoli scandali, il quale trasforma l'intervista di Richard Nixon in un vero e proprio processo davanti alla nazione, con relativa confessione finale.
Molteplici sono i meriti di questo film.
In primo luogo la fusione tra generi di racconto: Ron Howard unisce il finto documentario alla fiction cinematografica, con alcuni richiami nemmeno troppo velati al reality televisivo.
La tecnica utilizzata riesce in primo luogo a mantenere l'impronta documentaristica del film, e quindi il grado di credibilità dello stesso, ed in secondo luogo ad appassionare lo spettatore, che vive con partecipazione la riuscita dell'intervista.
Qui va dato atto che solo un regista che conosce i gusti del pubblico sarebbe riuscito a creare un film con una trama tanto flebile costruendo un'opera di rara intensità sia di ritmo che emotiva.
Insieme a Howard menzione speciale va data anche al bravissimo sceneggiatore Peter Morgan, capace di trovare la giusta sintesi fra realtà e finzione scenica.
Così come la scelta del cast è risultata essere vincente; relegando a personaggi di secondo piano attori del calibro di Kevin Bacon o Sam Rockwell, Howard sceglie i bravissimi Michael Sheen e Frank Langella rispettivamente nei ruoli di Frost e Nixon.
Forse la scelta è stata dettata dalla somiglianza fisica (curiosità che vede Michael Sheen per la seconda volta, dopo "The Queen", interpretare un ruolo rilevante grazie alle sue caratteristiche estetiche); fatto sta che la loro interpretazione è eccezionale, soprattutto per Frank Langella che non si crede che sia un attore solo "prestato al cinema" e che abbia una carriera sostanzialmente televisiva.
Langella riesce a dare a Nixon una rara intensità: staccandosi dalle vere immagini dell'intervista, non si limita a una mera riproposizione ma a una vera reinvenzione del personaggio.
Questa è forse la caratteristica migliore del film: inevitabilmente quando si tratta di film su argomenti tanto controversi c'è sempre una presa di posizione; "Frost-Nixon", invece, riesce a rimanere super partes,capace di presentarci un presidente che ha sbagliato, senza improbabili rivalutazioni, ma che comunque ne cerca una riabilitazione umana.
In molti cercheranno paralleli con "Il Divo" di Sorrentino, ma sarebbero azzardati, in quanto mentre Sorrentino parla all'immaginario cinematografico, Howard cerca di non discostarsi dalla realtà.
Il Watergate è un contorno della storia; non si vuole fare di "Frost- Nixon" una riproposizione dell'omonimo film di Oliver Stone, ma in realtà si pone ad essere come una riflessione sul potere e sulla democrazia, mostrata come compromesso che fonda il suo corretto funzionamento sulla violazione delle sue stesse regole, che diventano elemento di forza ma anche di debolezza.
Il Nixon di Howard è un uomo che ricorda i politici nostrani che giustifica i suoi errori e cerca una riabilitazione a tutti i costi.
L'intervista altro non è che un passaggio purificatore, che riabilita un uomo che è non più alla ricerca di alibi, ma sa ammettere le sue colpe per salvare la propria dignità (e in questo si distacca del tutto dalla nostra politica).
Un'acuta riflessione sul potere, fatta con grande lucidità e intelligenza, che ha l'unica pecca di non essere del tutto comprensibile da chi non abbia vissuto quegli anni o non sia americano.
Resta comunque una pellicola importante che conferma una positiva tendenza qualitativa della stagione cinematografica in corso.
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Recensione a cura di Paolo Ferretti De Luca aka ferro84 - aggiornata al 02/02/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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