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Davanti a un tema complesso come la cosmogonia è difficile giudicare obiettivamente qualcosa che permane da sempre come il più affascinante e frustante mistero dell'Uomo, la Creazione del Mondo, senza scontrarsi con le oltranziste posizioni religiose, atte a vanificare ogni sorta di interpretazione più o meno laica o scientifica. Anche le stesse variazioni sulla Divinità finiscono per accentuare la divisione dell'umanità perpetuata attraverso il tempo, e fortemente compromessa dalla necessità di coltivare la più evanescente (e forte allo stesso tempo) delle certezze terrene.
Per cosmogonia si intende dunque il racconto religioso o la teoria scientifica - due realtà che troppo spesso hanno desiderato di unirsi - sulle origini dell'universo.
"Gesù di Nazareth", (meno) noto come "Vita di Gesù" è probabilmente lo spartiacque - voluto in un periodo fortemente antitetico a peplum e iconografie come gli anni settanta (v. poliziotteschi all'italiana, action movies, blaxpoitation, cinema erotico e vietnam-movies), tra il tipico format televisivo e il kolossal dai grandi mezzi produttivi. Una finestra emblematica tra passato presente e futuro. Del resto chi avrebbe mai scommesso del ritorno del peplum prima de "Il gladiatore" di Scott o di "300" di Snyder?
Il film ripercorre la vita di Cristo attraverso i vangeli restando fortemente coerente alla "visione" ortodossa e tradizionalista del suo autore, Franco Zeffirelli.
Girato e trasmesso originariamente per la televisione italiana (sulla Rai in prima serata) e distribuìto sul mercato internazionale, gode di un successo sproporzionato - rispetto ai suoi merìti - tanto da venire indicato negli Usa (da Tv Guide) "la miglior miniserie tv di tutti i tempi" (!?).
Tutto ciò è puramente indicativo, perché ancora una volta siamo davanti alla formazione strategica e impegnativa della nostra imposizione religiosa.
Il Messia (bellissima parola e titolo dell'ultimo, incompreso e forse radicale Rossellini) di Zeffirelli apre le porte del nostro Paradiso ma non trova gli strumenti atti a dominarlo.
Nelle prime immagini, un bambino con gli occhi azzurri incanta lo schermo con la sua luminosità, ripagando l'attesa, lunga migliaia di anni, di tanti fedeli pronti a farsi proteggere da un Padre che domina, nel più doloroso silenzio, sui propri figli.
L'esclamazione "Dio ha abbandonato i suoi figli" è emblematica del passaggio temporale dell'avvento di Cristo sulla terra, e la stessa dichiarazione diventerà emblematica nelle parole del Cristo morente sulla croce ("Padre, perchè mi hai abbandonato?").
L'umanità Carnale del Cristo è solo nelle apparenze. Effettivamente tutto ciò che vediamo e che abbiamo letto nei vangeli, il passo di una preghiera ("si è fatto uomo") non può discernere dall'oleografica rappresentazione del regista, il quale fa di tutto per immortalare la beatitudine dell'Evento (anzi, degli eventi), scossi agiograficamente da un uomo che "emerge davanti a tutti gli altri".
Non c'è alcuna differenza, in fondo, tra il Cristianesimo raffigurato da Zeffirelli e quello di Augusto Genina in "Cielo sulla palude" (1949), nella figura retorica e delirante di Maria Goretti. La rappresentazione della Santità vorrebbe indicare una spiritualità profonda e assoluta, ma effettivamente se ne allontana precocemente. Perché davanti agli occhi trasognati di Robert Powell - scomoda ex- icona trasgressiva di Ken Russell - e al suo sguardo protervio verso il cielo (Il Dio Padre) non v'è alcuna sofferenza, alcun ripensamento teologico o religioso, alcun tipo di debolezza spirituale, in definitiva alcuna fede atta a sconsacrare lo stereotipo del dogma fomentato dall'immagine di una vita che percorre cronologicamente un anno della nostra esistenza.
"Per quanto tempo ancora? Il Signore ha abbandonato i suoi figli": si apre con queste parole la prosopopea di Zeffirelli, così inerme davanti allo stupore celestiale - non proprio stigmatico ma quasi - della sua rilettura.
Al di là di tutto, è proprio l'Immagine il problema principale di un film che riesce come nessun altro a cancellare e disperdere la Carnalità dello Spirito Santo venuto sulla terra come "uomo a immagine e somiglianza di Dio".
Rivisto oggi, "Gesù di Nazareth" non solo non sortisce affatto la visione idilliaca e rassicurante che vorrebbe, ma risulta in certi spunti vagamente inquietante nel suo delirio, oltranzista per non dire fanatico. I punti di distanza abissali tra la beatitudine del regista toscano e l'estremismo radicale del recente "La passione" di Mel Gibson sembrano in verità avere pochissimi gradi di separazione (tanto per citare un esempio enfatico di chi prende tremendamente alla lettera l'espressione di corpo e sangue di Cristo).
Senza contare che va dato atto al controverso film di Gibson di possedere una forza lirica, un'energia visionaria che Zeffirelli non ha.
Girato in Marocco, "Gesù di Nazareth" è un'altra idealizzazione universale dell'uomo, che - nelle vesti di un regista - cova il più grande desiderio della sua carriera.
Anche il cineasta più agnostico crede nell'assoluto primato professionale di un film del genere. Del resto nella storia del cinema non sono certo mancate esemplari riletture dei testi religiosi, da parte di autori non particolarmente credenti (Pasolini, Rossellini, Dreyer, Delannoy, persino Bunuel).
Il cast è ovviamente straordinario. Personaggi noti e meno noti dei vangeli vengono riproposti nelle vesti di famosi attori di fama internazionale, ed è emblematico che i più rappresentativi siano quelli che rivestono un ruolo marginale - si veda Renato Rascel nei panni di un cieco o Stacy Keach nel ruolo di Barabba.
Oltre a Powell, vi sono poi Olivia Hussey nei panni di Maria, Micheal York (Giovanni Battista), Anthony Quinn (Caifa), Rod Steiger (Ponzio Pilato), Ernest Borgnine (un centurione), Laurence Olivier (Nicodemo), Peter Ustinov (Erode il Grande), Valentina Cortese (Erodiade), Christopher Plummer e, dulcis in fundo, Claudia Cardinale (nel ruolo di un'adultera) e Anne Bancroft (la Maria Maddalena).
Nell'ortodossia "aureolare" di Zeffirelli non c'è spazio per la passione, il pathos, i ripensamenti, resta soltanto la predestinazione dello spettatore comune, atto a emozionarsi per l'Evento di cui siamo più o meno consapevolmente testimoni e difensori (si vedano le recenti polemiche sull'uso del crocifisso nelle aule, senza il minimo rispetto verso l'Assenza di altri simboli in una società multietnica o meglio ancora nel fermo convincimento del Simbolo sacrificale e doloroso come unica via di redenzione spirituale).
L'emozione del film sollecita gli uomini a interrogarsi nuovamente sul sacrificio del "solo uomo" per amore di tutti gli altri, mettendo a nudo la nostra povertà spirituale colmata dal (senso del) peccato e dalla scarsa fede. Tutto il film, mentre incoraggia la redenzione eterna "solo" a chi se lo merita ("Io sono venuto a questo mondo per rendere la vista a quelli che sono ciechi e per toglierla a chi non vuole vedere") spinge per l'ennesima volta il credente tradizionale a vivere nella sofferenza un peccato universale del quale conserva, esorcistamente, la prova inconfutabile e "domestica" della sua - involontaria? - colpa.
L'estetica di Zeffirelli ricorre a tutti i luoghi comuni del genere, compresa la pretesa di raffigurare Cristo come un profeta tardo-hippie - praticamente con la stessa pretesa moralistica del "suo" Francesco D'Assisi - dal volto pulito e beato, capace di divulgare il Bene senza occuparsi direttamente del Male che regna attorno a lui. La stessa ambiguità della morte è emblematica. In particolare, nell'episodio della resurrezione di Lazzaro, il rifiuto ideologico teologico e spirituale dell'"altra vita" sortisce un'involontario effetto comico.
La dimensione dello spirito continua pertanto a pervadere tutto il film, mentre il Messia attraversa tutti i confini della sua breve esperienza/esistenza come se venisse continuamente liberato dal male oscuro (di vivere ma anche di morire).
La sua proverbiale bellezza è falsa almeno quanto la degradante brutalità di un dolore riversato in una precoce resurrezione futura. O, come direbbe De Andrè nella rilettura degli scritti apocrifi "lascia noi piangere, un po' più forte, chi non risorgerà più dalla morte".
Miracoli e resurrezioni scandiscono un film dove è impossibile discernere dal rispetto dei testi evangelici, ma senza prima l'esperienza del fato accorso nelle mani di uomini in cerca di risposte, come è riuscito a raccontare Abel Ferrara. O senza la forza requisitoria del Cristo di Pier Paolo Pasolini, capace di respingere la carità umana come fonte inesauribile di bestemmia morale, come avversione e diffidenza nella presunta forza cristiana dell'uomo.
Figura discussa della redenzione umana è, da sempre, quella di Maria Maddalena, qui impersonata da un'attrice di grandi doti espressive come Anne Bancroft. La "sua" Maria Maddalena, raffigurata in un climax di profonda misoginìa, sembra attendere da una vita l'avvento del Messia per chiedere perdono, profondamente spinta - in quanto donna (e, peggio ancora, immorale) a reclamare un destino diverso, al di là del becero costume dei suoi "rispettabili" clienti.
Controversa fu la collaborazione con il prestigioso Anthony Burgess, autore de "L'arancia a orologeria" e scrittore/sceneggiatore notoriamente laico.
Effettivamente si disse che Burgess fosse rimasto alquanto deluso della rilettura di Zeffirelli, tanto da scrivere un libro (a quanto pare avverso ai puristi delle sacre scritture) proprio sulla figura di Gesù.
Il critico Tullio Kezich scrisse una stroncatura memorabile del film: "Il Vangelo secondo Zeffirelli è un compromesso tra la messinscena lirica, la passerella delle cammeo-performances, e il film storico hollywoodiano.
Non solo fa rimpiangere il sublime poverismo di Pasolini, ma sfigura con il discusso Messia Rosselliniano".
Ancora più severo Mereghetti secondo cui il film è "uno dei più brutti su Gesù, privo di vera fede".
Al di là delle (numerose) opinioni negative a riguardo, Zeffirelli resta fermamente convinto di aver realizzato il suo capolavoro, e lo dimostrerà quando, tra i più feroci oppositori dello "scandaloso" Cristo di Scorsese, continuerà a citare come unico e inimitabile modello proprio la sua opera.
In realtà la stilosità ineccepibile di Zeffirelli (coadiuvata dalla fotografia pre-rinascimentale di Armando Mannuzzi) stride con l'incapacità di rapportarsi direttamente all'emozione "umana" di un "uomo" che esibisce la sua costante dimensione di "santità".
Nel suo bisogno di elevarsi OLTRE la condizione terrena, il Cristo di Zeffirelli amplifica e corrode la miseria umana in tutte le sue forme, senza mai tutelarla veramente. È impossibile trovare una qualsiasi invettiva sociale in un Regno dominato dall'arroganza, dalla pena di morte (quella che troverà lo stesso Gesù), dalla lapidazione, dal furto e dalla corruzione dei potenti, ma il Messia del film opera per il bene di una comunità senza reprimere davvero il Male che la domina e sovrasta.
Molti critici sembrano tuttavia soffermarsi sugli aspetti più "sovversivi" della lavorazione del film (otto mesi di riprese), come se si dovesse ad ogni costo esigere che realtà e finzione debbano assurgere a una sorta di rigore espressivo paritario, anche dal punto di vista morale. Qualcosa del genere è accaduto davvero: Robert Powell non avrebbe mai potuto interpretare questo ruolo se prima non avesse sposato con rito cattolico la sua fidanzata di allora (il matrimonio fu celebrato nel 1975).
Il film ha avuto diverse edizioni televisive (quella italiana trasmessa su Rai 1 nel 1977), la versione inglese è quella più lunga, della durata di ben 371 minuti rispetto ai 237 della versione più conosciuta e diffusa.
Sceneggiato con l'ausilio del già citato Burgess e dell'onnipresente Suso Cecchi D'Amico, il film si è avvalso ovviamente di collaborazioni con studiosi, religiosi di varia etnia e persino esperti del Corano.
Lo stesso film è antitetico alla sua mediocrità artistica, e questo la dice lunga sugli scompensi cultural-religiosi della nostra società contemporanea: chi non trova alcuna necessità di concedere al Messia qualcosa di più del suo sacrificio universale, troverà sempre l'opera di Zeffirelli straordinaria, e non didascalica, agiografica, fredda, moralistica1. Per tutti gli altri, è consigliabile una qualsiasi rilettura antica (gli scritti apocrifi) o moderna ("Il Vangelo secondo Gesù Cristo" di Saramago).
Lo sguardo vago e illuminato di Robert Powell continua a credere nell'ascesa al cielo, ma non scalda il cuore.
Forse c'è davvero tutto quello che serve, tranne la vera fede.
1 "Io sono venuto a questo mondo per rendere la vista a quelli che sono ciechi e per toglierla a chi non vuole vederla".
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 04/03/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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