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"Nella mia fine è il mio principio".
T.S.Eliot
Dopo essere stati costretti a vivere come raminghi ai margini del mondo magico, Harry, Ron ed Hermione preparano il loro ritorno ad Hogwarts. Restano da trovare gli ultimi Horcrux, i restanti frammenti dell'anima di Voldemort. La vita e la morte di molti dipende dal risultato di questa ricerca e gli indizi per trovare i restanti pezzi del mosaico portano alla scuola di magia dove tutto ebbe inizio e dove tutto avrà il suo epilogo.
Sono trascorsi esattamente dieci anni dall'esordio cinematografico di "Harry Potter e la pietra filosofale", primo e ormai mitico capitolo di una delle saghe cinematografiche di maggior successo nella storia della settima arte. Non sempre all'altezza delle aspettative dei milioni di lettori sparsi sul globo, i film tratti dai romanzi dell'inglese Joanne Kathleen Rowling hanno comunque sempre calamitato le attenzioni del pubblico, trascinandolo ogni volta al botteghino con lo stesso entusiasmo della prima volta, mostrando una tenuta sbalorditiva per una serie di otto film, andando a riscoprire e a rivitalizzare un genere, quello del fantasy, che indubbiamente ha tratto enorme beneficio dal franchise ispirato alle avventure del giovane mago e che sicuramente negli anni a venire sarà posto ad esempio per qualunque pellicola di genere, insieme alla trilogia de "Il signore degli anelli".
Alla guida di questo ultimo episodio troviamo ancora una volta David Yates che, senza se e senza ma, è stato il regista più controverso tra i quattro chiamati dalla Warner per portare sullo schermo il mondo incantato nato dalla penna della Rowling. Dopo la stagione della spensieratezza e dell'innocenza dei primi due episodi targati Columbus, i tormenti dell'adolescenza narrati da Cuaron e la presa di coscienza del male e l'esperienza della morte affrontati con Newell, nel 2007 arriva Yates e il suo "L'ordine della fenice", non certo il libro più amato della serie dagli appassionati e nemmeno il più semplice da trasporre per via della mole di materiale prodotto dalla Rowling.
Ad adattare le oltre 800 pagine del manoscritto troviamo un nuovo sceneggiatore, Michael Goldenberg ("Contact" e il recente "Lanterna Verde") chiamato a sostituire il veterano Steve Kloves (che poi riprenderà il suo posto nell'episodio successivo). Il risultato per l'esordiente Yates, proveniente dalla tv e a corto di esperienza cinematografica, non è certo entusiasmante: la pellicola viaggia spedita senza troppi problemi al box office, più per inerzia che per meriti artistici, ma non convince per via di una resa troppo scialba, sconclusionata, claudicante e poco convincente.
Sorprende dunque saperlo al timone anche del successivo capitolo, "Il principe mezzosangue", indiscutibilmente uno tra i più riusciti e affascinanti romanzi della serie (insieme a "Il prigioniero di Azkaban"), grazie all'importanza che i suoi retroscena rivestono in funzione dell'imminente epilogo. Se con "L'ordine della fenice" il pubblico aveva storto il naso, con questo sesto adattamento si sfiora il baratro: vengono tralasciati elementi fondamentali della trama in favore dei tormenti sentimentali dei tre protagonisti, andando ad incidere pesantemente sulla credibilità stessa dell'intera pellicola ed il tono stesso ne risente.
Quando ormai le speranze circa la buona riuscita dell'epilogo della serie erano quasi del tutto sfumate, ecco arrivare la prima parte de "I doni della morte", sorprendentemente soddisfacente sotto molti aspetti, degno apripista di una seconda parte caratterizzata da un'insolita narrazione ellittica (inusuale per questa saga) e dal profondo respiro epico. Due episodi completamente antitetici tra di loro: compassato, teso e permeato da un'atmosfera intima il primo, cui fa da contraltare una seconda parte dal forte impatto visivo ed emotivo e dal ritmo decisamente incalzante e adrenalinico. Due film così diversi tra di loro, così distanti, eppure al tempo stesso così vicini, legati da un unico scopo: porre fine a tutto.
Quando la Warner comunicò l'intenzione di dividere l'ultimo episodio in due parti, molti pensarono alla solita operazione di marketing, il cui unico scopo era quello di lucrare il più possibile su un franchise che stava giungendo alla fine della sua corsa. Invece già con la prima parte ci si era dovuti ricredere, in quanto il materiale fornito dalla Rowling nel suo romanzo di commiato era talmente complesso da non poter essere trasposto in un unico film ed il rischio di non rendere realmente giustizia al finale di un fenomeno mondiale di tale portata era più che concreto, specie dopo l'esperienza negativa dei precedenti due episodi, i cui tagli avevano finito per snaturare l'opera e scontentare molti.
La suddivisione in due parti ha dato modo sia a Yates che allo sceneggiatore Kloves di realizzare un lavoro più fluido, coinvolgente e fedele all'originale cartaceo, con qualche licenza che aggiunge spettacolarità all'evento, come nel caso dello scontro finale tra il "prescelto" e Lord Voldemort, meno "verbale" e più "fisico", tanto da ricordare un combattimento Jedi, capace di restituire quel giusto tocco di epicità che la stessa Rowling con la sua penna non era riuscita a conferire.
Ciò che manca, invece, per ovvie esigenze di spazio, è uno degli elementi centrali della trama de "I doni della morte", ossia le ombre gettate sul passato di Albus Silente, che nel romanzo fanno vacillare la fiducia che Harry aveva sempre riposto nel preside di Hogwarts. Si tratta di un punto centrale in quanto tali rivelazioni vengono recepite come un tradimento, tradimento che assume proporzioni maggiori alla luce di quanto sta per accadere (lo scontro con la sua nemesi) e che lo privano di quelle certezze che fino ad allora gli avevano consentito di trovare la forza di andare avanti e credere che la sua missione fosse possibile. È la reazione a questo "tradimento" che rende Harry più maturo e consapevole. Essa rappresenta l'ultima tappa di un lungo processo di formazione che lo colloca al di sopra del suo stesso mentore e che trova la sua degna sintesi con la rinuncia al potere assoluto, in questo caso la bacchetta di Sambuco. Harry si trova a dover decidere tra i Doni e gli Horcrux, optando per questi ultimi e rinunciando alla tentazione che aveva ammaliato lo stesso Silente. Harry capisce così che la vera forza non risiede nella potenza delle armi che si hanno a disposizione, ma piuttosto nella forza del proprio spirito e nella purezza del sacrificio. A distanza di anni riecheggiano le parole del compianto Richard Harris:
"Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità".
In termini di sacrificio, quello compiuto dal personaggio più ambiguo, drammatico e affascinante della serie, Severus Piton, ha un valore particolare, in quanto implica l'annullamento di se stesso a favore di un'immagine che non corrisponde alla realtà, il tutto per difendere il frutto dell'amore nato dall'odiato James Potter e l'amore di una vita: Lily Evans. Si tratta di un sacrificio che mette a tacere gli interessi personali e che implica un coraggio notevole. L'intera serie ruota attorno al concetto del sacrificio personale, è stato così per Lily prima e per Silente, Dobby, Lupin, Tonks, Moody e Piton poi. È il sacrificio puro compiuto in nome dell'amore, qualcosa che chi vive per il male non potrà mai arrivare a capire:
"Voldemort trascura l'ipotesi che qualcuno possa sacrificare se stesso per un bene più grande".
Come Harry, anche Piton è protagonista di un percorso di formazione: viene sedotto e corrotto dal lato oscuro, tanto da tradire inconsapevolmente l'unica donna che avesse mai realmente amato, salvo poi tentare un disperato tentativo che la preservi in cambio delle vite di James ed Harry Potter. Il male però non conosce vie di mezzo e Severus si ritrova solo con il suo rimorso; è a quel punto che per espiare le proprie colpe decide di dedicare segretamente la propria vita alla causa del piccolo Harry, nei cui occhi brilla la stessa luce che aveva acceso il suo amore/cuore. L'odio che rivolge a Harry per sei anni è frutto dell'odio che prova per se stesso, perché attraverso gli occhi del figlio di Lily rivive il dolore ed il tormento per il ruolo avuto nello spegnere per sempre quegli stessi occhi che tanto aveva amato. Solo quando Silente rivela infine il vero piano per il ragazzo, Piton ha uno scatto di rabbia nei confronti del preside:
"Lo ha tenuto in vita perché muoia al momento opportuno. Lo ha allevato come una bestia da macello"
"Ma è commovente, Severus. Ti sei affezionato al ragazzo, dopotutto?"
Il percorso è giunto a termine.
In termini di resa sullo schermo, la trasposizione del capitolo "La storia del principe" è quanto di più commovente e realistico (a livello di emozioni) si sia mai visto nel corso di tutta la serie, merito di un Alan Rickman ispirato e finalmente vero protagonista di alcuni flashback che con delicatezza ripercorrono la drammatica esistenza del personaggio più affascinante dell'intera serie potteriana.
Purtroppo però, a livello interpretativo, le sempre ottime prestazioni dello stellare cast di comprimari non hanno sempre trovato il giusto bilanciamento con quelle dei tre protagonisti, troppo spesso incapaci di reggere appieno il peso di una tale fardello, cosa che ha pesantemente inciso sulla credibilità delle pellicole, in quanto nei momenti di maggiore pathos è quasi sempre venuta a mancare una recitazione di livello superiore che avrebbe potuto rendere la serie qualitativamente migliore.
Tuttavia in questi ultimi due capitoli il lavoro svolto dai tre è considerevolmente migliorato, specie per quanto concerne Radcliffe, il quale è sempre sembrato il più legnoso e meno dotato del gruppo. Il ragazzo appare maggiormente consapevole del proprio ruolo di leader e la narrazione stessa ne trae vantaggio. Del resto nel corso di tutti questi anni sia lui che Rupert Grint ed Emma Watson hanno avuto il privilegio di osservare da vicino all'opera il gotha del cinema britannico, da Richard Harris a Maggie Smith, da Michael Gambon a Robbie Coltrane, passando per Kenneth Branagh, Jason Isaacs, Helena Bonham Carter, Brendan Gleeson, Gary Oldman, Julie Christie, Emma Thompson, Miranda Richardson, Imelda Staunton e Jim Broadbent, fino ad arrivare a Ralph Fiennes e Alan Rickman, il migliore per intensità e carisma. Dilapidare un patrimonio di tale portata sarebbe sacrilego e l'augurio è che i tre non si perdano per strada, ma riescano a trovare la propria via come hanno fatto i loro corrispettivi cinematografici.
Come già avvenuto per la prima parte, la colonna sonora è curata dal talento francese di Alexandre Desplat, autore anche delle musiche di "The Tree of Life" "Il discorso del re" e "Il curioso caso di Benjamin Button". Il risultato è un lavoro encomiabile che sa essere sensibile ed epico alla stessa maniera, capace di rendere tangibili e reali i sentimenti e le emozioni vissute dai protagonisti e di accompagnare con equilibrio ogni istante. Come per i registi, anche per i compositori si è assistito ad un ricambio continuo, con le colonne sonore dei primi tre film curati dal maestro cinque volte premio Oscar John Williams, cui è poi subentrato Patrick Doyle per il quarto e Nicholas Hooper per il quinto e sesto. Ognuno di loro ha lasciato un pezzo di se stesso nella storia di questa serie impreziosendola, emozionando e divertendo il pubblico con la loro arte.
Tra le tracce da ricordare citiamo la sognante "Harry's Wondrous World", la nostalgica "A Window to the Past", le struggenti "Harry in Winter" e "Possession", fino alle più recenti "Obliviate", "Farewell to Dobby" e la toccante "Lily's Theme". Tutto però ha avuto inizio con il carillon che suona "Hedwig's Theme", tema portante della serie, e si conclude con un richiamo a quella "Leaving Hogwarts" che ci aveva salutato alla fine de "La pietra filosofale", andando a chiudere nostalgicamente un cerchio lungo dieci anni che ci ha visto tutti quanti, babbani e non, crescere insieme ad Harry, Ron ed Hermione.
Grazie, Harry, per essere rimasto con noi fin proprio alla fine.
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Recensione a cura di Luke07 - aggiornata al 27/07/2011 14.49.00
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