Archeologia di un'Italia che non c'è più. Un'Italia miserabile ma viva, orgogliosamente estranea ai valori del perbenismo borghese.
San Berillo è un quartiere di Catania, una Catania che forse nemmeno tutti i catanesi, oggi, conoscono. Cortili ricettacolo di immondizie, vicoli unti di piscio, umilissimi interni e muri scalcinati e collassati. Qualcuno si aggira, come alla ricerca di reliquie, a caccia di qualche paradossale reperto "archeologico", in questo lembo marcio dove un licenzioso passato è sospeso come in un presente fuori dal tempo. Tagliato via dalla Storia e dal resto del mondo. San Berillo oggi è un ghetto superstite, dove, come fantasmi, si aggirano figure decrepite di un passato che si ostina a sopravvivere, e rivendica spesso con orgoglio la propria alterità. Quello di queste anziane prostitute, anziani clienti nostalgici, travestiti che recitano ancora su non si sa quale ribalta, è un vitalismo consunto come le loro carni, eppure fiero.
Lo spettatore (borghese) assiste con la mente inevitabilmente rivolta ai vicoli della Genova di De André, e alla periferia romana di Pasolini. Pasolini: che di quest'Italia reietta è stato grande cantore e che luoghi del genere li frequentava, in una Roma profondamente diversa da quella attuale.
L'Italia meridionale è ancora costellata di luoghi di simile atmosfera, che sopravvivono anche nel cuore dei centri storici (dalla Vucciria di Palermo a Bari vecchia, ai quartieri spagnoli di Napoli). Nessuno di questi luoghi è probabilmente come San Berillo. San Berillo appare estremo e fuori dal mondo, alieno. Con 30.000 veri e propri deportati ha vissuto negli anni '50 il più grande sventramento urbanistico in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Di quell'episodio vediamo alcuni filmati di repertorio. Il film è percorso da un controcampo documentale di matrice classica (immagini d'archivio unite a interviste). Ma anche dopo la legge Merlin del '58, San Berillo è rimasto un quartiere a luci rosse. Affacciate sulla soglia di interni che danno su vie desolate e deserte, ancora oggi prostitute e trans attendono i clienti che li vanno a trovare.
"I fantasmi di San Berillo" di Edoardo Morabito ha vinto come miglior film la sezione Italiana.doc del Torino Film Festival 2013. E' ennesimo esempio di un filone "documentario" underground particolarmente florido in Italia da almeno due decenni a questa parte. Un "genere" cinematografico meticcio, dove lo sguardo sul dispiegarsi della realtà, in presa diretta sotto gli occhi della macchina da presa, converge - e collide, con risultati spesso spiazzanti - con l'ambizione dell'autore di apportare cenni di costruzione narrativa, e aprire squarci di evocazione poetica.
Un genere che non ci piace etichettare, come pure è stato fatto, "cinema del reale" (in Francia esiste anche un festival, del "Cinema du réel" - si tiene ogni anno al Centro Pompidou, tempio della cultura parigina). In Italia vi si sono cimentati anche i giovani maestri del cinema italiano contemporaneo: si pensi al Garrone di "Terra di mezzo" che risale al 1996 (e non è un caso se lo sguardo, così originale, che Garrone ha mantenuto nel successivo cinema di finzione, sia veracemente intriso di "reale").
Nel 2013, questa modalità "neo-neorealista" di fare cinema (ecco un'altra etichetta…) è emersa agli onori della cronaca, grazie al Leone d'oro conferito a "Sacro Gra" di Gianfranco Rosi, e al Marc'aurelio d'oro a "Tir" di Alberto Fasulo (che esce in sala proprio in questi giorni).
Nel film di Morabito, l'impostata voce narrante di Donatella Finocchiaro, che declama liriche della catanese Goliarda Sapienza (e parole di Italo Calvino), inietta nella pellicola film una dolcezza e una levità che non appartiene ai luoghi di San Berillo. E, anche, una consapevolezza della bellezza, che in parte stride con la veracità delle immagini: e tuttavia - paradossalmente - contribuisce alla natura meticcia, bastarda, del film.
"I fantasmi di San Berillo", in modo volutamente squilibrato, si sposta continuamente fra piani diversi, non amalgamati - ivi inclusi, naturalmente, alcuni brevi frammenti di film pornografici d'epoca, in bianco e nero.
Morabito si ispira, è evidente, in particolare al fortunato "La bocca del lupo" (2009) di Pietro Marcello.
Se questo suo "I fantasmi di San Berillo" non possiede l'intensità emotiva della storia di Enzo e Mary, raccontata nel film di Pietro Marcello vincitore del Torino Film Festival 2009 (e del David di Donatello come miglior documentario), è comunque un piacere incappare in opere come queste, emblemi di un'indomita volontà indipendente di fare cinema in direzione ostinata e contraria. E, soprattutto, esempi di uno sguardo privo di filtri, e pregno di curiosità rivolta alle pieghe più nascoste di pezzi di realtà autentica, che ancora sopravvive lontano dall'omologante ribalta mediatica.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 27/02/2014 17.41.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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