Recensione il bandito della casbah regia di Julien Duvivier Francia 1937
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Recensione il bandito della casbah (1937)

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locandina del film IL BANDITO DELLA CASBAH

Immagine tratta dal film IL BANDITO DELLA CASBAH

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Il film di Julien Duvivier si inserisce perfettamente, per ispirazione e cronologia, nell'aria, per non dire nel movimento, del realismo poetico: sguardo cinematografico francese, che si ritiene abbia avuto il suo culmine storico tra il 1935 e il 1939, quando a fare cinema erano impegnati, per questa via, oltre Duvivier, autori come Jean Renoir e Marcel Carnè. Brividi caldi, volti disincantati, condanna sentimentale, brume umide sono le componenti delle tragiche vite dipinte dal realismo poetico; vite umili, stravolte dalla sfiducia nei confronti degli esseri umani, vite autolesionistiche per le quali non sembra esserci alcun raggio di sole, anzi segnate sempre più dall'affogamento fatale nell'istante della speranza. E nel "Bandito", Jean Gabin disegna un altro uomo disilluso dagli eventi e rassegnato al suo destino, qualunque esso sia; criminale per forza di cose, deciso da una volontà che non è la sua.

Poesia sublime, il destino di Pèpè le Moko. Questi è un bandito francese che, per affari loschi commessi in Francia, si rifugia ad Algeri; ma non solo: si rifugia nella casbah della città, luogo inaccessibile e impenetrabile per la polizia locale, a causa dei suoi infiniti cunicoli ombrosi e dei suoi tetti comunicanti. Pèpè così conduce l'esistenza tranquilla del Ras grazie ad un sistema d'informazioni e di passaparola che precede ogni azione delle forze dell'ordine. A sconvolgere la sua vita monarchica, e apparentemente serena, basta un incontro decisivo, secondo la "logica" (e diremo perché non si può parlare di logica, in questo senso) del realismo poetico.

Pèpè è un uomo che ama: ama a modo suo l'ispettore Slimane (Lucas Gridoux), che gli dà amorevolmente la caccia, e ama a modo suo Pierrot (Gilbert Gil), il suo preferito tra gli scagnozzi: li ama di un amore eterosessuale, più solidale ed incantato dell'amicizia; un amore che sembra voler condividere una sofferenza solitaria altrimenti insopportabile. Tutti, nella casbah, vogliono la sua stima, perché quando lui stima, stima davvero, senza fronzoli, con tutto l'affetto possibile. Dietro la scorza criminale si agitano i turbamenti di un angelo sentimentale, uno sguardo amorevole e quasi universalmente solidale.
È il sentimento che sembra muovere tutta la dinamica del film. Se i ragionamenti, le tattiche, le mappe dei tetti, appartengono ad una dimensione prettamente sociale, fatta di ruoli, è anche vero che le decisioni più importanti, le storie e la memoria dei personaggi, si riservano un luogo d'azione che scavalca l'intelletto ed agisce per impulso, senza distinzioni di genere.
La sensibilità di Pèpè è fatale, ha occhi solo per certe cose, solo per certe donne: al di là del rango di Ras, che gli permette di avere anche "più di tremila donne in fila al suo funerale", Pèpè è un esiliato: ecco perché l'incontro con Gaby (Mireille Balin) sarà fatale: dietro i suoi gioielli, il suo profumo e i suoi occhi, si cela Parigi. Lei è il deus ex machina, anzi ex urbe, l'ennesimo incontro sbagliato. Lei cancella le tremila donne della fila al funerale, i vicoli sudici, la zingara Ines (Line Noro) che lo ama, i traffici illeciti, le fughe.

Si percepisce sullo schermo il grande tema dell'uomo che lotta contro forze destinali, che impugna la propria vita per poi perdere e perderla miseramente. In fondo, Pèpè, contro ogni logica, agendo d'impulso, quando esce dalla roccaforte, è già un fantasma. Il suo è un suicido che non termina con la morte, ma con l'intrappolamento: Pèpè non solo è morto, suicida effettivo, ma è morto ingabbiato, recluso: separato dalla donna che incarna ogni possibile orizzonte luminoso e dalla donna che lo ha amato fino a tradirlo, Ines. Pèpè muore con il volto tra le sbarre, angelo incompreso, creatura dannata, troppo delicato per quel mondo di banditi, al di fuori del quale si compie il disegno già da sempre intravisto e preannunciato. Pèpè può morire solo in quel modo perché solo quello è peggiore della morte stessa: la fine è davvero fine, come l'amore è davvero amore, senza mezzi termini, senza fronzoli.

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Recensione a cura di Gilles - aggiornata al 04/02/2009

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