Voto Visitatori: | 8,53 / 10 (44 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Grande opera avversa, fatta di lusso, di sporco, di fiamme e di carne; un film violento e liberatorio, umiliante e catartico, infimo e madornale, quello in cui l'espressività stilistica di Peter Greenaway, già autore avvezzo allo scandalo (basti citare quell'algida bizzarria che è "Lo zoo di Venere"), raggiunge il suo grado massimo di compiutezza.
In un fastoso ristorante contemporaneo si dipanano i destini dei quattro protagonisti del titolo: Richard, un cuoco francese fine e discreto (Richard Boringher), Albert Spika, un ladro dai modi sgarbati e ripugnanti (Michael Gambon), la trascurata moglie Georgina (Helen Mirren) e il raffinato amante di lei, l'intellettuale Michael (Alan Howard), cliente fisso del ristorante che alle persone preferisce la compagnia di un buon libro.
In nove giorni e nove cene, introdotte sullo schermo dai ricchissimi e ipercalorici menu delle prelibatezze messe a punto per la serata, nasce e si conclude atrocemente la passione tra Georgina e Michael, tra sguardi eloquenti e rapporti amorosi consumati segretamente nei bagni nivei e nelle opulente dispense della cucina.
Riconosciutosi becco sotto gli occhi di tutti, Albert perseguiterà moglie e amante fino a scovarli nell'immensa biblioteca-rifugio in cui ucciderà Michael ingozzandolo di pagine di libri. Non immagina la vendetta della donna, per anni vittima delle perversioni sessuali e dei sadismi erotico-culinari del marito, che si appresta così ad imbandire un macabro banchetto il cui unico commensale sarà il furioso Albert.
Il film è una grandiosa metafora gastronomica sull'adulterio, un pamphlet straordinario sul legame corporale tra "sesso" e "cibo", in un ristorante che diventa un tempio degli appetiti umani. Il retaggio sociologico che l'opera cela al suo interno è fortemente in polemica nei confronti dell'imbarbarimento dell'uomo moderno, ridotto ad un agglomerato di tubi digerenti e teso solamente a "sfamare" gli istinti più bassi ed elementari.
Le influenze gastronomiche regnano sovrane in quasi due ore di spettacolo, ma l'interesse verso il cibo non è vitale e gioioso, bensì spropositato, sublimemente goffo, ridotto a puro divertissement masochistico. La ricercatezza delle elaborate pietanze del cuoco si rivela direttamente proporzionale alla disinteressata voracità del ladro verso ciò che mangia, a simboleggiare lo sprezzante egocentrismo di un uomo che gode nel rendersi protagonista di convivi esagerati al fine di ergersi al di sopra di ogni altro commensale in una sorta di lotta per lo status symbol. Né passa inosservata una vena suggeritrice di legami e rapporti tra cavità anatomiche e modelli comportamentali: la logorrea aggressiva di Albert è chiaramente allineata al cibo che ingurgita, più mette e più dice, in onore al suo nomen-omen, Spika; la sobrietà da commensale di Georgina è specchio della sua voracità sessuale lungamente inappagata e, più che col cibo, preferisce riempirsi la bocca con gustose fellatio; l'ingordigia letteraria di Michael profetizza il sadico ripieno col quale verrà ucciso.
In quest'assetto fitto di simbologie gastro-alimentari (non mancano all'appello neppure defecazioni, ribollite cannibaliche, congressi lerci e maleodoranti) Greenaway impone il suo gusto scenico con una squillante ricercatezza estetica che travolge arredi, addobbi, costumi e pose, fino a trasformare il suo film in un quadro fulgente d'arte seicentesca (emblematico il dipinto "Il banchetto degli ufficiali del corpo degli arcieri di San Giorgio" di Frans Hals, che trionfa sulla parete del ristorante).
Ancor più prepotentemente si stagliano scenari danteschi vertiginosi, adoperati con salace inventiva sinestetica: lo spiazzo esterno antistante il locale, luogo afflitto da una triste luce al neon, è un selva oscura piena di cani e di turpi violentatori; da una zona limite si passa all'immensa cucina, spazio plumbeo e caotico, cadenzato da canti penitenziali ed attività preordinate, un purgatorio di anime in passione; quindi il vero e proprio inferno, una profondissima sala da pranzo dalle tonalità vermiglie, fuochi e fiamme tra tavoli e tappezzerie ed un branco di avventori conciati magistralmente per le feste da Jean-Paul Gaultier; ancora le toilette regali e di un candore accecante, luogo universalmente meschino e "basso" che diventa teatro di paradisiaci incontri amorosi.
Ci sono poi tutta una serie di odori e suggestioni che non fanno altro che ricondurre la mente ad altrettanti passi della "Commedia" o lampi pittorici e religiosi (la biblioteca sembra il limbo delle grandi personalità intellettuali, le celle frigorifere lerce e scivolose ricordano le pene dei dannati, gli amanti nudi e offesi che si coprono le pudenda fanno riferimento alla cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden, ecc.)
L'abbondanza di riferimenti colti non porta comunque alcuna spiritualità al film che, piuttosto, si ispira ai drammi sanguinari del teatro elisabettiano ed alle tragedia greche e latine. L'universo descritto da Greenaway si basta da solo, già fin troppo impegnato a districarsi dal marasma di egoistiche bramosie.
Un plauso agli interpreti e al talento visionario del regista, forse mai più così spietato e irresistibile.
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Recensione a cura di atticus - aggiornata al 07/12/2011 16.29.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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