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Sergio Leone con il suo primo film di genere western, in seguito definito "spaghetti" per differenziarlo dal filone a stelle e strisce, inaugura un nuovo modo di fare cinema. Il western classico mostrava infatti generalmente duelli tra eroi senza macchia solitamente sbarbati e con abiti sempre freschi di bucato, o epici combattimenti tra i buoni (alias i bianchi) e i cattivi (alias i pellerossa, dipinti come selvaggi sanguinari) oppure si dedicava all'epopea dei pionieri, gente senza macchia e senza paura, partiti alla volta delle terre occidentali per incentivare il progresso del popolo nordamericano.
Leone invece mostra uomini sporchi, paesaggi squallidi, gente disperata e non ha paura di essere a volte fin troppo spietato e violento.
Il genere "spaghetti western" iniziato con Sergio Leone nel 1964 ebbe per tutto il decennio una serie di imitatori e continuatori; alcuni produssero delle pallide copie destinate a scomparire velocemente, altri hanno realizzato degli autentici capolavori.
Questo è il caso de "Il grande silenzio", basato su una vicenda realmente accaduta nel freddo inverno del 1898 a Snow Hill (città sul confine tra Stati Uniti e Messico), girato nel 1967 da Sergio Corbucci e uscito l'anno seguente sul grande schermo.
L'ambientazione è un elemento importante in questa storia: non ci sono sterminate praterie né lande desolate o villaggi assolati ma neve a perdita d'occhio (il film fu girato a Cortina D'Ampezzo) e sono diversi i protagonisti.
L'eroe senza macchia è un muto, un Jean Louis Trintignant passato dai personaggi timidi e un po' nevrotici delle sue pellicole precedenti al bounty killer spietato, ma giusto e soprattutto diverso, disadattato. Il villain è invece Klaus Kinsky, sguardo di ghiaccio, volto scolpito nella pietra, destinato a ricoprire troppe volte il ruolo del cattivo per antonomasia, in questa storia aiutato anche dal doppiatore che gli regala una voce sottile, perfida e spiazzante. La protagonista femminile è, cosa veramente inusuale per l'epoca e soprattutto per un film di genere western, una attrice di colore, Vonetta McGee. Un'altra scelta difficile che contribuisce a fare della pellicola un western diverso, non allineato, che non teme il divieto ai minori per l'audacia e l'efferatezza di alcune scene.
La violenza, cruda, cieca, immotivata è sempre presente nei film classici e nei film di Leone, ma in questa pellicola si offre copiosa, non lascia spiragli, fa uscire dalla sala lo spettatore sgomento perché non si intravede la vittoria del bene nel finale. Non è il buono, il diverso Trintignant a vincere, ma l'infame Kinsky, e questo è atipico.
Passato raramente in televisione, difficile da rintracciare sui circuiti tradizionali, questo western di Corbucci è immeritatamente poco noto a dispetto dei suoi contenuti, dei dialoghi accurati, del carisma dei protagonisti e anche della splendida colonna sonora firmata dallo specialista Morricone. Chi ama il western tradizionale potrebbe storcere il naso davanti alle novità del film di Corbucci, ma è proprio per la sua epicità e per il suo essere differente che "Il grande silenzio" si è ritagliato un posto speciale nella storia del cinema.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 31/05/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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