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Il grande sonno, il sonno da cui non ci si ridesta, il sonno freddo della morte... le notti buie e piovose della pellicola di Hawks di cadaveri ne regalano davvero tanti. Un film cupo e livido, colore del cielo senza luna, color della terra che ricopre i corpi freddi addormentati, dall'atmosfera di pece che dà vita ad un romanzo già scritto in bianco e nero.
"Cosa importa dove si giace quando si è morti? In fondo a uno stagno melmoso o in un mausoleo di marmo alla sommità di una collina? Si è morti, si dorme il grande sonno e ci se ne fotte di certe miserie. L'acqua putrida e il petrolio sono come il vento e l'aria per noi. Si dorme il grande sonno senza preoccuparsi di essere morti male, di essere caduti nel letame. Quanto a me, ne condividevo una parte pure io, di quel letame, ora."
Questa spiegazione viene direttamente dalle pagine del romanzo perché se il nero assoluto è il colore che più ci viene alla mente, questo film è stilisticamente un noir atipico, in cui non vi è voce fuoricampo che possa illustrarci il senso del titolo, non vi sono flashback, non vi è un abuso del grandangolo o delle immagini a forte contrasto di matrice espressionistica.
Hawks è capace di portare avanti l'azione con la sola forza dei dialoghi e tramite una serie infinita di piccole modulazioni di inquadrature e montaggio, al punto che potremmo dire che più che un noir "Il Grande Sonno" è un vero proprio film "hardboiled" nel pieno rispetto della scrittura di Raymond Chandler.
Philip Marlowe è una "suola", ossia un investigatore privato, che viene contattato dal Generale Sternwood per indagare su un piccolo ricatto ai danni della figlia più giovane, Carmen; dopo questo incontro viene convocato dalla figlia maggiore, Vivian (una strepitosa Lauren Bacall), donna bella e viziata come la società a cui appartiene, il cui marito è misteriosamente scomparso.
Da qui prende il via una vicenda intricatissima costellata di persone svanite nel nulla che, quando riappaiono, si presentano per lo più sotto forma di cadavere.
Le figlie di Sternwood hanno ben più di un segreto inconfessabile e la storia si dipana fra colpi di scena, suggerendo foto di nudo, uso di droghe, passione per il gioco d'azzardo e le scommesse, mettendo in evidenza tutto lo squallore della "buona società" della West Coast.
Inutile dilungarsi sulla sinossi del film, infatti "Il Grande Sonno", pur potendo vantare una sceneggiatura scritta dal premio nobel William Faulkner, non trova la sua chiave nella soluzione del confuso puzzle della trama.
Lo spettatore si perde totalmente dietro questa lunga catena di delitti incrociati e alla fine almeno uno degli omicidi rimarrà irrisolto (si narra addirittura che quando Hawks chiese allo stesso Chandler chi avesse ucciso l'autista di Sternwood questi gli abbia risposto, con la più grande naturalezza possibile, di non averne la ben che minima idea!).
Il film ruota invece intorno ai propri personaggi, ai dialoghi serratissimi e fedeli al romanzo, all'atmosfera claustrofobica, colma di paranoia, minacce e sospetto; si rimane incantati davanti allo scambio di sguardi dei protagonisti, di fronte allo scoppiettio di battute secche, argute e memorabili, fatte di doppi sensi e umorismo disincantato.
La narrazione in prima persona del romanzo di Chandler è resa dalla presenza costante di Marlowe in ogni inquadratura. Il regista punta così a rispettare il punto di vista del protagonista, di un "duro", a volte cinico a volte sardonico, che guarda alla corruzione in cui è immerso con la sua faccia dolente e disillusa. È come se Marlowe si staccasse dalle pagine del libro e Bogart scavasse in profondità nella sua psiche per appropriarsene totalmente, donandogli in cambio il proprio volto dalla straordinaria umanità, le proprie espressioni laconiche, la propria fisicità di uomo normale.
Continuando nel solco de "Il Falcone Maltese" Bogart diventa la vera incarnazione del detective solitario e misogino, dalla battuta pungente e svelta, che fugge il sentimentalismo pur quando guarda con desiderio una donna, profondamente legato al proprio codice di comportamento morale.
Humphrey Bogart e Philip Marlowe diventeranno, nell'immaginario collettivo, una cosa sola, un'associazione naturale che solo Robert Mitchum riuscirà a scalfire (senza però riuscire ad intaccarla).
La grandezza di Bogart viene però condizionata dalla sua splendida co-protagonista femminile: la sua compagna nella vita, Lauren Bacall. Durante i dialoghi dei due i suoi gelidi occhi da gatta sottendono un fuoco palpabile, un fremito controllato, e tuttavia animalesco, anima le sue narici e la Bacall riesce davvero a dar vita all'eccitazione di un erotismo che nasce dal desiderio e dal pericolo.
Hawks gioca molto sulla tensione passionale fra i due e la sospinge con dialoghi allusivi, ai limiti della decenza dei tempi, specialmente nelle sequenze aggiunte nel 1946 prima della distribuzione del film, come ad esempio il dialogo "ippico" al ristorante (la maggior parte del film venne infatti girato nel 1944 ma per esigenze legate alla situazione bellica la Warner ne rimandò la proiezione nelle sale, prima dell'uscita del film Hawks richiamò il cast sul set ed aggiunse alcune scene).
Anche il finale del film trova un senso non perché si riesca a capire chi sia il colpevole dei delitti (o meglio, uno dei colpevoli) ma perché Marlowe e Vivian sono insieme.
Le esigenze di copione non regalano al personaggio della Bacall moltissime scene, e la sua figura è a volte adombrata da un'altra splendida interprete: la bella Martha Vickers che gioca alla bimba perversa e ingenua, regalando al personaggio di Carmen un senso di irriducibile ambiguità. Purtroppo non tutti nel cast sono all'altezza di queste interpretazioni e il film risente di una certa legnosità dovuta a questa baraonda di cattivi senza scrupoli né arte.
Un altro personaggio a cui va dato risalto è quello del ricco generale: non tanto per la sua breve apparizione sullo schermo, quanto per l'importanza che tale figura rivestirà nella visione di Marlowe.
Sternwood è un uomo anziano, stanco, disilluso e malandato che si inebria dell'alcool per interposta persona, è un osservatore impietoso della meschinità che lo circonda. La corruzione del proprio entourage gli torna alla mente al solo sentire l'odore carnale delle orchidee e si rende conto che le proprie figlie emancipate sono ormai sfuggite al suo controllo; di loro dice con esausto cinismo "hanno tutti i vizi più ovvi, e qualcun altro che si sono inventate da sole".
A lui va la simpatia incondizionata di Marlowe, che ne condivide la pena e il disgusto: infatti il nostro detective, pur avendolo incontrato una sola volta, si sente obbligato a portare a termine il caso, anche quando il suo onorario è stato saldato dalla figlia che teme che troppi segreti vengano alla luce.
Il legame fra Marlowe e Sternwood è fatto di distacco critico nei riguardi del corso delle cose. Questi, così come il generale, è stato portato dalla vita a guardare la realtà pur nei suoi recessi più abietti, il suo lavoro lo ha posto di fronte agli angoli più bui, agli uomini più squallidi ma, per dirla con le parole di Chandler, continua a svolgere il proprio lavoro, animato dal desiderio di portare a termine un'opera "appassionatamente morale".
La peculiarità di questa storia sta nei personaggi e nell'ambiente in cui essi vivono. La realtà che Hawks ci dipinge non è allucinatoria, non è caratterizzata da una patina onirica che contraddistingue molti noir, ma è ancorata alla realtà di Los Angeles, della quale vuole mettere in evidenza la decadenza accuratamente nascosta sotto il belletto.
Ne "Il Grande Sonno" i personaggi pur muovendosi in sobborghi di tenebra, incessantemente bagnati di pioggia, dove regnano attività illegali, non ci conducono a sordidi bar di periferia, ma ad esotiche villette della "buona società", a club esclusivi frequentati da gente corrotta e contaminata dal potere ma dalla sfolgorante apparenza.
Lo sguardo di Marlowe porta alla luce la parte marcia di una società dorata, malgrado egli non sia un eroe ma un uomo che si guadagna la vita onestamente e che prova pietà per i vecchi dal profondo rigore ed i giovani naïve ingannati dalla vita.
Un film dal sapore antico in cui Hawks firma una regia splendida e discreta, fatta di intervalli fra campi e contro campi, totali e dettagli, primi piani e inquadrature di servizio, una direzione che lascia fluire il nostro sguardo verso lo squallore e la solitudine della vita metropolitana in un crudo realismo.
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Recensione a cura di Laura Ciranna - aggiornata al 09/03/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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