Recensione il mestiere delle armi regia di Ermanno Olmi Italia, Germania, Francia 2001
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Recensione il mestiere delle armi (2001)

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locandina del film IL MESTIERE DELLE ARMI

Immagine tratta dal film IL MESTIERE DELLE ARMI

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Nel 1526 l'esercito del Sacro Romano Impero di Carlo V discende attraverso l'Italia con l'intento di arrivare a minacciare lo Stato pontificio. A difendere i territori del Papa emerge la figura di Giovanni de' Medici, uomo dissoluto ma dalla tempra eroica.
Si tratta di un personaggio circonfuso da un alone leggendario, passato alla storia anche come "Giovanni delle bande nere". I Gonzaga di Mantova, insieme al duca d'Este di Ferrara, tramano di nascosto a favore dei loro territori, lasciando campo libero alle truppe imperiali dei Lanzi.
Giovanni de' Medici è solo; viene infine tradito dal duca di Ferrara Alfonso I d'Este il quale, in cambio di favori politici da parte dell'Impero e di un matrimonio combinato, fa omaggio al generale Frundsberg di quattro cannoni "di ultima generazione".
Proprio da uno di questi cannoni Giovanni viene ferito a una gamba, durante un agguato. Mentre la cancrena avanza, la sua agonia viene descritta come una passione del corpo e dello spirito.

Il primo messaggio che arriva da questo magnifico film, di grandiosa compostezza formale, riguarda la condanna delle armi. Esso è esplicito, sin dalla citazione iniziale di Tibullo, che costituisce un'inequivocabile e netta condanna delle armi - prima ancora che della guerra, dell'istinto bellico, o delle pulsioni di violenza – come flagello per l'umanità.
Di tutte le armi: non solo quelle da fuoco (che sembrerebbero a prima vista le sole ad essere oggetto di condanna da parte del film). Del resto va osservato che la scelta di Olmi è ricaduta su una citazione latina – proveniente da un'epoca in cui le armi da fuoco erano sconosciute.

Veniamo, quindi, alla figura del protagonista. Giovanni de'Medici permette di mettere a fuoco uno snodo cruciale nella storia delle armi: il superamento dell'arma bianca e l'avvento delle armi da fuoco. Delle varie caratteristiche che contraddistinguono Giovanni, in gran misura negative (la furia luciferina e animalesca, l'infedeltà coniugale), alcune possono essere considerate virtù: la fierezza e l'impavidità, un eroico coraggio da guerriero integro che incarna fino in fondo il proprio ruolo, un carattere che si salda immediatamente alla fedeltà all'arma bianca e alla predilezione per il confronto bellico individuale.

Intorno a questo personaggio, una cerchia di corruzione. Le virtù del protagonista stridono aspramente a confronto con la corruzione umana e politica che lo circonda.
Questo mondo è quello delle corti italiane del Cinquecento: dipinto con staticità e freddezza, inquadrature fisse e figure ferme e irrigidite. Anche le personalità, nel corso del racconto, non evolvono e restano assolutamente immobili nella loro statica mediocrità.
E' un mondo fantasmagorico, onirico, come un incubo malsano, il mondo bieco del compromesso politico senza etica e senza valori (in cui si legge anche una metafora della tempra politica che sempre contraddistingue l'Italia). Gonzaga ed Estensi, questi principi machiavellici - che però non sono capaci di seguire davvero i suggerimenti di Machiavelli - contrabbandano al nemico le armi da fuoco.
Ecco dunque instaurata, nel film, una relazione tra il loro mondo (negativo in tutto e per tutto) e la viltà insita nell'uso delle armi da fuoco.

Il personaggio di Giovanni de'Medici, che per contrasto emerge in positivo rispetto al mondo che lo circonda, resta tuttavia una figura sostanzialmente negativa (si ricordi che le armi, come si è visto, sono tutte condannate senza distinzione; la citazione iniziale di Tibullo resta ferma). Tuttavia, il personaggio di Giovanni si staglia sugli altri anche perché in lui scorgiamo un accenno di evoluzione: una espiazione appena accennata, nella "passione" della sua agonia, nelle angosce, descritte con grande potenza visionaria, delle sue febbri. E' una deriva onirica nella quale rievoca la carnalità della sua relazione con la nobildonna e immagina la moglie lontana (figura idealizzata, da lui e dal regista, simbolo di pace e concretezza domestica).
Infine fronteggia con sovrumana fierezza la menomazione fisica (l'amputazione della gamba) ossia un'umiliazione del fisico che per lui è tanto più tremenda quanto più i suoi valori erano connessi alla fisicità: forza, onore, coraggio, integrità.
Olmi con ciò pare volerci suggerire questo: é necessario che questi valori, i valori militareschi di Giovanni de'Medici, vadano in cancrena e che lui perisca con essi. Non in essi sta la "verità", che andrebbe piuttosto ricercata in una direzione che non è quella seguita da Giovanni, dagli eventi narrati e dalla Storia; è piuttosto la direzione uguale e contraria del "predicatore" che porta a spalla quel che resta d'una croce e che le bande di Giovanni incontrano nelle nevi (un incontro che ricorda nella forma e nel significato quello tra la colonna di soldati e l'aborigeno ne "La sottile linea rossa" di T. Malik).

Ora può darsi che alla parabola discendente del guerriero si sovrapponga (come ha suggerito qualcuno) quella ascendente, spirituale, dell'uomo; tuttavia nel film non c'è vera redenzione né catarsi, c'è solo la breve vicenda degli ultimi giorni di vita di un individuo, il quale per contrasto si staglia nettamente sul contorno ma non completa il salto, il passaggio in una dimensione "altra" di salvezza.
Il messaggio del film, non è di speranza, almeno non in termini storici. Il finale, infatti, conferma quanto sia nero l'umore complessivo del film con la menzione, in chiusura, della dichiarazione d'intenti – rimasta ovviamente inascoltata – per una messa al bando delle armi da fuoco.
Appello vano, ancora attuale (il riferimento può andare alle armi di distruzione di massa), quel monito inascoltato chiude in nero un'opera che ha nel tragico il suo elemento primario.

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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 26/02/2010

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