Voto Visitatori: | 8,44 / 10 (9 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Primo lungometraggio documentaristico del regista tedesco Werner Herzog, dedicato ai sordo-ciechi e alla figura di Fini Straubinger.
L'opera si presenta come una sorta di itinerario interiore della protagonista che, nel contempo, fa da guida agli individui afflitti dalla medesima disabilità.
«SE OGGI SCOPPIASSE UNA GUERRA MONDIALE NON POTREI NEPPURE ACCORGERMENE»
Uno dei modi più potenti ed efficaci di raccontare la solitudine esistenziale.
La vicenda personale di Fini Straubinger si trasforma in un viaggio dentro realtà ignorate e obliate, all'interno delle quali la malattia diventa la lente con cui guardare e cogliere lo straziante isolamento dei soggetti che ne sono affetti: "una monografia sulle mani di una sordo-cieca", come dirà lo stesso regista.
La sensibilità di Herzog emerge già dall'inizio del lungometraggio, dove le memorie e le visioni interiori della donna vengono trasfuse in immagini filmiche: un espediente che consente subito allo spettatore di empatizzare con la storia del personaggio. Così, la scena ricorrente nei pensieri di Fini (una strada che solca dei campi spogli, sovrastata dal passaggio di alcuni nembi) è riportata dal regista con una sequenza sgranata in bianco e nero, che sembra voler rendere l'idea di qualcosa di vago, indefinito e privo di grazia.
Immediatamente dopo, Herzog traspone un ricordo d'infanzia della donna riguardante una gara di salto dal trampolino: l'effetto è quello di un'esaltazione e amplificazione del senso di libertà perduta suscitata da tale reminiscenza, secondo anche la sua plausibile portata metaforica resa dal concetto del volo che s'interrompe nell'impatto col suolo. Tema del volo che ritorna nella sequenza del viaggio aereo, in cui Fini e la sua amica sordo-cieca Julchen, accompagnate dall'interprete, si comunicano, sulle note di Vivaldi, le reciproche emozioni di ebbrezza e di gioia attraverso il contatto tattile necessitato dall'alfabeto digitale.
Il momento successivo è dato da una serie di foto d'epoca, che ritraggono la donna dall'infanzia alla pubertà, fino agli anni della giovinezza. Le immagini sono intervallate dalle spiegazioni di lei stessa sull'origine e il decorso del suo male, nonché sugli stati d'animo che in lei montavano e maturavano di pari passo col progredire della patologia. Ciò che poco alla volta affiora dalle sue parole è una smisurata sensazione di vuoto ed emarginazione, determinata dalla distanza incolmabile che la divide dall'umanità circostante ("La gente mi prometteva che mi avrebbe fatto visita. Ma quando venivano, parlavano con mia madre ed io restavo nel mio mondo silenzioso") e acuita, nonostante la fede, dal silenzio "assordante" come (non-) risposta alle sue vane preghiere ("la religione mi ha dato la forza, ma questa terribile solitudine è rimasta").
Dopo questa parentesi autobiografica, la protagonista ci conduce, attraverso svariate situazioni, in quello che lei definisce come il Paese del silenzio e dell'oscurità, dove l'unico collegamento con il mondo vero è costituito dalla fondamentale e imprescindibile attività di traduzione degli interpreti ("quando le nostre mani si lasciano, è come se fossimo distanti mille miglia"). Ed è infatti il contatto di mani, tra disabile-interprete o disabile-disabile, a fungere da filo conduttore per tutta la durata del lungometraggio, ponendosi come una sorta di "voce" narrante alternativa a quella della protagonista e del regista stesso.
Si passa, così, dalla festa di compleanno di Fini che si conclude in un giardino botanico, occasione per mettere in risalto l'unico strumento di cui i sordo-ciechi dispongono per conoscere l'ambiente che li circonda, ad una clinica neurologica dove da più di due anni vive Else Fahrer. Con lei è precluso qualsiasi tipo di comunicazione: venuto meno il suo trait d'union con la realtà, la madre, è venuta meno la realtà stessa. Dopo una serie di inutili tentativi diretti a stabilire un dialogo con la donna, l'episodio nella clinica si chiude con il primissimo piano del volto di Else, che ne evidenzia lo sguardo perso nel vuoto e che lentamente si allarga fino a mostrare lo stanzone del dormitorio: qui si vedono le pazienti sedute, a distanza ravvicinata, sui rispettivi letti, ma l'assenza che traspare dalle loro espressioni sembra quasi proiettarle in luoghi lontanissimi e sperduti.
L'itinerario prosegue con Fini che fa visita ad altri soggetti menomati, tra cui alcuni ragazzi sordo-ciechi dalla nascita: alla descrizione del tentativo d'insegnare a due fanciulli un particolare linguaggio che sfrutta le vibrazioni della bocca, ma con il grave limite di non poter trasmettere loro i concetti astratti di "buono" e "cattivo", s'accompagna il ritratto del giovane Vladimir: un disabile che, ridotto quasi allo stato vegetale a causa anche dell'incuria dei genitori, è capace di comunicare soltanto con gesti elementari.
L'ultima tappa è però quella più toccante. L'incontro, nel giardino di una Casa di cura, con Heinrich Fleischmann, un reietto della società che, trascurato pure dalla famiglia, ha cercato compagnia negli animali, rappresenta il culmine d'un lirismo e d'uno struggimento impareggiabili. Herzog, dopo aver seguito il dialogo tra Fini e la madre di Heinrich, riprende quest'ultimo mentre s'allontana dal gruppo di donne, occupate a parlare tra loro, e si dirige verso un albero; con uno stacco di montaggio si passa a un'inquadratura ravvicinata che mostra l'uomo dapprima intento ad abbracciare il tronco dell'arbusto, e poi piegato a raccogliere alcune foglie dal suolo; dopodiché la distanza tra l'occhio del regista e il personaggio viene ripristinata, e da lontano si scorge Heinrich raggiunto dalla madre e accompagnato all'interno della Casa. La camera, a questo punto, si alza e inquadra la sommità del campanile che sormonta l'edificio, per poi ridiscendere e cogliere Fini mestamente sola sotto le fronde di un albero.
Il documentario termina, dunque, con l'immagine più forte sull'isolamento interiore della sordo-cieca: non c'è Dio che ascolti né persona –sana o menomata che sia- in grado di stabilire un vero e profondo legame con lei. V'è solo un vuoto cupo, triste e straziante, cui fanno da contrappunto le ultime note della musica di Bach.
Il cinema del regista tedesco è materia viva, pulsante, dove fiction e verismo tendono a coadiuvarsi: da opere quali "Aguirre Furore di Dio" o "Fitzcarraldo" al genere documentaristico, il lavoro di Herzog è sempre teso a cogliere non la semplice realtà che filma, bensì la sua essenza. Ciò è spiegato esplicitamente in "Grizzly Man" quando, sulla scorta dell'evento imprevisto di un animale entrato nel campo della handycam di Timothy Treadwell, il cineasta afferma che filmare significa anche cogliere il fluire inopinato e incontrollabile della vita (e non riportare banalmente l'immagine morta del set); e lo si ritrova concretamente nella sequenza dello zoo di "Paese del silenzio e dell'oscurità", durante la quale uno scimpanzé comincia improvvisamente a giocare con la mdp, al punto da rimuoverne la mascherina. Da questo episodio faceto alla tragedia il passo è breve: Herzog, in altre parole, interviene sul reale solo facendo leva sulla crudezza dello stesso, di cui sottolinea ed accentua gli aspetti più pregnanti per giungere al nucleo strutturale delle cose. Ed è quello che emerge prepotentemente dal documentario in questione, dove il malessere dei disabili, seppur inaccessibile, comunque giunge impetuoso e impietoso allo spettatore. In tal senso, "Paese del silenzio e dell'oscurità" contiene già in sé quella che potrebbe definirsi la linea programmatica della migliore produzione "herzoghiana", ponendosi quale tassello imprescindibile per capire la poetica e il modus operandi dell'artista ("chi non l'ha visto non dovrebbe parlare del mio cinema"), e trovando una perfetta e ideale continuità nel succitato "Grizzly Man". Il mondo, la Natura sono di per sé barbari, brutali e crudeli, e non occorre stravolgerli per darne una rappresentazione incisiva: basta distillarne i lati più aberranti e s'arriva all'iperrealismo.
In definitiva, il grande pregio dell'opera del regista monacense sta nel saper trasmettere un senso abbandonico che, a partire dalla protagonista, si riverbera su tutti gli altri personaggi immersi come lei nella dimensione della sordo-cecità. Ma proprio un simile sentimento ci fa percepire, altresì, l'impossibilità di comprendere fino in fondo la condizione esistenziale di questi soggetti: nessuno potrà mai sapere in che modo i due ragazzini abbiano recepito i concetti di "buono" e "cattivo", quali moti dell'animo spingano Heinrich a tentare d'abbracciare l'albero, o in che misura la stessa Fini senta il trauma del distacco allorquando le sue mani si disgiungono da quelle altrui. Ciò che si riesce ad avvertire, tuttavia, è la sconfinata solitudine che li avvolge, resa insopportabile dall'impossibilità di comunicare realmente con gli altri, e dall'indifferenza delle persone, della Natura e di Dio.
Al termine della visione del lungometraggio, non sarebbe affatto fuori luogo chiedersi quanto di loro sia in noi.
"Se fossi una pittrice, rappresenterei la nostra condizione in questo modo: la cecità come un fiume nero che scorre lentamente come una melodia verso grandi cascate. Sulle sue rive, alberi e fiori, ed uccelli che cantano dolcemente. L'altro fiume, proveniente dall'altro lato, è chiaro come il più puro cristallo. Anche questo scorre piano, ma senza alcun suono. In fondo c'è un lago, molto scuro e profondo, dove i due fiumi s'incontrano. Nel punto in cui si congiungono, ci sono rocce che fanno spumeggiare le acque. Dopo le lasciano fluire silenziosamente e lentamente in un tetro bacino, che giace in una calma mortale, turbato solo da un'occasionale increspatura che rappresenta la lotta del sordo-cieco. Le rocce che rompono le acque sono la depressione che i ciechi e i sordi sentono quando diventano sordo-ciechi."
(Fini Straubinger)
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Recensione a cura di ULTRAVIOLENCE78 - aggiornata al 16/11/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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