Recensione il rifugio regia di François Ozon Francia, Italia 2010
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Recensione il rifugio (2010)

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locandina del film IL RIFUGIO

Immagine tratta dal film IL RIFUGIO

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Immagine tratta dal film IL RIFUGIO
 

Da molto tempo ormai il regista francese François Ozon ci ha abituati ad un cinema rivolto soprattutto all'analisi psicologica dei suoi personaggi e capace di mescolare ambiguità e trasgressione, sensibilità e passione, senza per questo snaturare in profondità la realtà del mondo che ci sta attorno.
Egli, infatti, invece di dare alle sue opere una sostanziale e facilmente riconoscibile compattezza di vedute, ama girare lo sguardo verso tematiche che spaziano da un genere all'altro, senza mai allontanarsi da quelle atmosfere di raffinata eleganza ai temi che preferisce trattare, nei quali si mescolano bisogni e sentimenti, convenzioni e anticonformismo, intimismo e materialità, eros e thanatos. Ecco dunque che il suo cinema è sfuggente, minimalistico, urticante a volte, scevro da ipoteche confessionali e ideologiche, mai chiuso in se stesso, in costante giustapposizione tra le istanze dei protagonisti, lo sguardo dello spettatore, e le necessità del racconto.
Pertanto, nella variegata filmografia del regista parigino, è possibile trovare tracce della sua costante necessità di esplorare con creatività la capacità della condizione umana di adattarsi alle brutalità delle cose. Le storie che mette in scena sono segnate da un'ambiguità che non subisce il fascino della dispersione di ciò che sta oltre ciò che siamo abituati a considerare nostro.

Ogni film del regista è anche una parabola sui labirinti della rappresentazione, in cui la finzione non si sostituisce alla realtà, ma la affianca per rafforzarla.
Ozon, insomma, non ha remore ad entrare diritto nel cuore delle storie, a scavare in profondità negli eventi perturbati dell'anima; i sui personaggi sono in balia di varie possibilità, prigionieri di un destino da cui non si può fuggire, che si diverte a combinare e scombinare le cose. Sono così Mousse, Louis e Paul, i personaggi de "Il rifugio", giovani alla deriva... occupati a sopravvivere.

Il regista condensa la loro storia in un algido e cupo melodramma, che prosegue il discorso iniziato con "Sotto la sabbia" e proseguito con "Il tempo che resta", con i quali "Il rifugio" condivide tensioni e significati, formando un'ideale trilogia che, traendo spunto da situazioni reali, si immerge negli abissi dell'io per approdare ad una sentita riflessione su assunti rilevanti, come la genitorialità, la sessualità, la realtà della morte e la conseguente elaborazione del lutto.
L'impianto narrativo si complica e si arricchisce poi di concetti di grande interesse come il difficile rapporto tra coloro che sopravvivono alla perdita, la condizione omosessuale, presenza quasi costante nel lessico cinematografico di François Ozon.

Ancora una volte, dunque, il suo sguardo si sofferma su una donna, Mousse, entra nella sua vita, la segue, ne scruta i pensieri e le emozioni e la mette in relazione al soggetto maschile, facendole acquisire centralità e significato.
Questo avviene fin dall'inizio, quando,a causa di un overdose, perde, Louis, l'uomo che ama ed è vicinissima a seguirne la sorte. Trasportata in coma all'ospedale, si riprende, ma scopre di essere rimasta incinta del compagno che ha appena perso.
Decisa, ma non convinta, a riscattare la sua vita dalla dipendenza dalla droga, sceglie di portare avanti la gravidanza per salvare il ricordo e placare il dolore per la morte dell'uomo che l’ha amata, contro il parere della ricca famiglia alto borghese di lui (soprattutto della madre), che la spinge ad abortire, preoccupata unicamente di salvaguardare lo status familiare, da cui sembra che il ragazzo avesse cercato di fuggire e probabile causa del malessere che l'ha portato a morire.

Si allontana così da Parigi e si rifugia in una isolata casa sul mare della costa brava (dono di un ex spasimante), lontana da tutto e da tutti. Il suo isolamento, interrotto solo dalle periodiche visite alla locale farmacia, per acquistare il metadone con cui disintossicarsi e salvaguardare il bambino che sta crescendo in lei, viene turbato, qualche tempo dopo, dall'arrivo di Paul, giovane e fascinoso fratello di Louis, che la raggiunge nella solitudine del rifugio in cui si è reclusa, più per ritrovare se stesso che per desiderio di restituire identità alla donna amata dal defunto fratello.
Infatti Paul, come Mousse, vive una problematica identità: è dichiaratamente omosessuale ed è stato adottato dalla ricca famiglia nella quale è cresciuto.
All'inizio la forzata convivenza si rivela piuttosto problematica e controversa, specie da parte di Mousse che fa resistenza al tentativo del giovane di entrare a far parte della sua vita. Poi, però, col passare dei giorni, la dolcezza, l'incanto, la gentilezza, l'emotività dello strano ragazzo, cominciano a far breccia nella sua iniziale diffidenza, al punto da farsi sopraffare dalla gelosia quando lui inizia una storia d'amore con il ragazzo delle consegne.
Nasce così, tra i due, un sofferto rapporto di grande intensità, discontinuo e aspro, solidale ed egoistico, fragile e ricattatorio, con qualche punta di sottile erotismo, il che lascia intendere quanto bisogno abbiano l'una dell'altro.

Entrambi hanno sofferti vissuti di cui liberarsi, entrambi si sentono e sono estremamente fragili, entrambi non hanno nessun motivo per stare insieme, entrambi sono due svantaggiati del nostro sistema e non accettati dalla società.
Eppure, poco a poco costruiranno insieme una sorta di elegia della morte e della vita che confluiranno nella scoperta di sé e dell'altro, da cui ripartire.
Mousse vivrà la sua attesa come una lunga e dolorosa elaborazione del lutto; Paul, dal canto suo, pur non rinunciando alla sua sessualità, accanto a lei scoprirà un insopprimibile, quanto insospettato, istinto paterno.

Come quasi tutti i film di Ozon, anche "Il rifugio" è costruito attorno ad una figura femminile (non per niente in patria è detto "il regista delle donne"); e poi ancora l'elaborazione del lutto, e ancora una donna al centro. Ozon ne tratteggia il profilo e lo offre allo sguardo dello spettatore in tutta la sua "carnale" bellezza, nel momento più intimamente femminile: quello della gestazione, da cui trae linfa vitale e quella forza che non ha mai avuto.
Mousse è una donna combattuta tra fragilità e senso di responsabilità. Non riesce ad accettare pienamente il figlio che porta in grembo, la gravidanza, per lei, è una lunga, dolorosa elaborazione del lutto, solo un mezzo per tenere vivo in sè il ricordo di Louis.
Un lutto da cui sta fuggendo e che la porta ad esplorare il mondo che la circonda, animata da una strana, rinnovata vitalità, che le farà fare nuove esperienze, nuovi incontri, che le farà provare a sorridere ancora, a ritrovare la sessualità (avrà una fugace, quanto estemporanea relazione con un uomo sposato, attirato sessualmente dai pancioni, a patto che non sia quello della moglie; e finirà persino a letto con l'attraente, quanto impreparato e confuso, quasi cognato gay, forse per giustificare il finale, in cui la scoperta, da parte di Paul del sentimento maschile per eccellenza, lo porterà ad accettare un figlio non suo, a riprova che l'istinto paterno non è una prerogativa esclusivamente biologica).

Ozon, anche se in modo del tutto naturale, gioca con il  dualismo di Mousse, la quale, dal canto suo, se da un lato vive il suo stato come una sorta di limbo ed ha con la maternità un approccio quanto meno problematico, dall'altro  sperimenta il desiderio bruciante di Louis e il sortilegio di farlo rivivere in sè . Ciò non le impedisce di sentirsi inadeguata come madre, finendo col credere che quasi sicuramente Paul sia la persona migliore (sicuramente migliore di lei) a ricoprire quel ruolo.
Forse non una rinuncia definitiva, ma un momentaneo "passaggio di consegne", in attesa di riprendere in solitudine un percorso iniziatico che dovrà portarla ad imparare a vivere e ad amare ancora, e trovare il senso di una nuova maternità, vissuta, stavolta con convinzione e non come una scorciatoia per fuggire dal vuoto della mancanza o per risolvere certe fragilità della sua esistenza.

Come già accennato, con "Il rifugio", François Ozon ritorna alle atmosfere ovattate e ai temi introspettivi di alcuni dei suoi film precedenti, riprendendo l'attenzione sulla lievità dei sentimenti, sulle emozioni e le paure dei protagonisti, che vengono mostrati da vicino, nella loro essenzialità, senza orpelli o virtuosismi autoreferenziali e senza condizionare il pubblico nell'esplorazione della loro anima.
Per far questo il regista riduce al minimo l'azione e concentra tutta la seconda parte in un luogo chiuso, circoscritto e solitario; quel rifugio sul mare (il rifugio del titolo) che diventa il rifugio dalla droga, il rifugio dalla gravidanza, il rifugio dalle emozioni, il rifugio dal dolore.

Ma al di là dei temi prettamente ozoniani, quello che sembra prevalere ne ""Il rifugio" è che rimane nella mente dello spettatore, è il contenuto "politico" del film. Contenuto condensato nella sorpresa finale che sottintende una chiara e precisa presa di posizione politica da parte di François Ozon a proposito dei temi (di grandissima attualità) che riguardano soprattutto il riconoscimento delle coppie omosessuali e il loro diritto all'adozione. Riconoscimento e diritto negato da quanti affermano la unicità della famiglia basata esclusivamente sul fondamento naturale.

Con questo film Ozon si schiera apertamente contro tale concezione e a favore di un principio per cui l'affettività nelle pluralità delle sue forme, debba, se non primeggiare, essere messa sullo stesso piano del dato meramente biologico.
Che si condivida o meno questo principio, non si può fare a meno di notare che la scelta finale di Mousse (che ritiene Paul più adatto di lei a ricoprire il ruolo genitoriale) segna un punto a favore della sua tesi. Ed è bello pensare che, se non in Italia, in certi ambienti si sia capaci di pensare a queste problematiche senza i condizionamenti che arrivano da oltretevere o senza le suggestioni di teorie prive di riscontri scientifici.

Un film militante, dunque, e un virtuosistico thriller dell'anima e un saggio introspettivo sul senso della vita e della morte (l'inizio di una vita che dà senso alla fine di un'altra), della sessualità e della genitorialità (l’amore nelle sue varie forme e l'istinto paterno al di fuori degli schemi consolidati), fatto di poche parole e tanti silenzi.
I personaggi sono introversi e problematici; i loro vissuti sono segnati dalla "diversità" e dall'emarginazione sociale. Una situazione che li pone in posizione difensiva di fronte alla vita.

La scrittura è di grande pulizia formale sorretta da una messa in scena dalla rigorosa essenzialità, senza rinunciare, peraltro, ad alcune calcolate singolarità (si veda l'acidità classista della madre di Louis e Paul, l'incontro in spiaggia con la donna che farnetica di gravidanze felici, e quello con l'uomo che adora le donne incinte, ma di un altro). Le musiche che riempiono i tanti silenzi sono tristi e suggestive, composte dallo stesso protagonista, il giovane ed enigmatico cantante francese, Louis Ronan-Choisy, prestato al cinema in questa occasione e scelto da Ozon (che non voleva un attore professionista per ricoprire il ruolo di Paul) per il senso di smarrimento che traspare dal suo sguardo e per la naturalezza con cui ha saputo porsi nello scomodo ruolo dell'omosessuale sensibile e fragile, dotato di un grandissimo istinto paterno.

Melville Poupaud, icona ruiziana, e già ottimo interprete dell'ozoniano "Il tempo che resta", nei pochi minuti di presenza sullo schermo ci offre un saggio di bravura in un ruolo di grande turbamento visivo: quel Louis la cui morte, contrariamente all'opera precedente, non segna la conclusione ma l'inizio della vicenda.

Un discorso a parte merita la bravura di Isabel Carré, effettivamente in stato di incipiente gravidanza all'epoca in cui è stato girato il film; il che ha permesso allo spettatore di vivere la bellezza e il mistero di una donna incinta. e all'autore di giocare con i tempi dell'attesa. Tempi che hanno segnato la lavorazione della pellicola e hanno permesso al regista, che da tempo desiderava girare un film con un'attrice in stato interessante, di documentare con meticolosa precisione le sensazioni e le emozioni di una donna in attesa di un figlio, e che hanno reso possibile all'attrice (una delle più brave, belle e spontanee di Francia), di esibire con "impudica" naturalezza il suo pancione bianco e teso che diventa da subito l'essenza della storia e il catalizzatore di un'altra vita che, seppur in lontananza, riesce a dare un senso alla fine di un'altra.

In definitiva, avvicinandoci a quest'opera,si rimane stupiti di constatare come il regista sia riuscito, pur con qualche stereotipo di troppo, ma con invidiabile proprietà di linguaggio, di fare della genitorialità una funzione svincolata dai fattori biologici e di farla divenire piuttosto un atto di affettività consapevole.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 23/05/2012 15.26.00

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