Recensione il settimo continente regia di Michael Haneke Austria 1989
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Recensione il settimo continente (1989)

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locandina del film IL SETTIMO CONTINENTE

Immagine tratta dal film IL SETTIMO CONTINENTE

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Immagine tratta dal film IL SETTIMO CONTINENTE

Immagine tratta dal film IL SETTIMO CONTINENTE
 

Spaventoso.
Questo film è semplicemente spaventoso.

Non è un horror, non è un thriller, non ci sono serial killer e nemmeno meteoriti che spazzano via ogni cosa. Eppure mette paura, disagio, fastidio.

Ci riesce nel modo più semplice: facendo vacillare ciò che viene considerato "normale". Ossia la famiglia. Composta, in questo caso, da un marito normale (Georg Schober interpretato da Dieter Berner), una moglie normale (Anna Schober, alias Birgit Doll) ed una figlia normale (Evi Schober, la piccola Leni Tanzer). Anzi, anche più che normale: perché lui è in crescita sul piano lavorativo grazie ad una meritata promozione che gli regala ben presto un'ottima solidità economica, lei è una donna decisamente molto bella, lavoratrice, madre attenta e sorella premurosa, la figlia è una bambina dal sorriso molto dolce e che, a parte qualche bugia di troppo, non sembra dare pensieri ai suoi genitori. Però forse proprio quelle bugie di troppo...

"Il settimo continente", anzi "Der siebente Kontinent", è inedito in Italia e dunque va assaporato in versione originale. Tedesco. Che pur essendo una lingua capace di mettere i brividi anche quando è usata per la lettura delle ricette di cucina a causa dell'intonazione da perenne piano di conquista del mondo, non è nemmeno quella la causa della paura trasmessa dal film di Michael Haneke.

Nato a Monaco di Baviera nel 1942, esordisce come regista cinematografico nel 1989 proprio con questa che sarà la prima di tre opere della così detta "trilogia della glaciazione". Le altre due sono "Benny's video" del 1992 e "71 frammenti di una cronologia del caso"del 1994. Alienazione, inadeguatezza, mancanza di stimoli: questi i temi che sembrano essere più cari al regista austriaco fin dai suoi esordi.
Ciò che subito colpisce nel suo primo film è la regia frammentaria. Pezzi di scene tagliate con l'accetta, a volte anche pochi secondi, e poi il "nero", scena successiva, e così avanti fino alla fine. Tecnica questa che tenderebbe a distaccare lo spettatore da ciò che sta guardando. E invece no, perché poi, tra un taglio e l'altro, ecco dei lunghi piani sequenza che, di contro, annegano letteralmente nella storia.

Già, ci sarebbe la storia. Riassumerla è un bel problema. Perché in pratica sono tre anni di vita di questa famiglia normale, in cui non succede assolutamente nulla di straordinario. Se non che, di punto in bianco, decidono di chiudere il conto in banca, ritirare tutti i risparmi, vendere la macchina, staccare il telefono, il citofono, fare grandi provviste di cibo, e licenziarsi dal lavoro. Il motivo, per il resto del mondo, è un viaggio in Australia.
L'Australia: quel poster in casa Schober è un po' come il monolite di "2001 Odissea nello spazio".
Ma torniamo alle bugie della bambina. Bisogno di attenzione, direbbero quelli bravi. E forse avrebbero ragione. Fatto sta che sono il primo sintomo di una situazione che sta per essere stravolta. E qui è obbligatorio lo spoiler. Ossia la rivelazione del finale.
Suicidio collettivo.
Padre, madre e bambina decidono scientemente di morire. E lo fanno da veri tedeschi. Da teutonici. Senza ripensamenti, senza dubbi, senza paura. Si chiudono dentro casa e distruggono ogni bene, ogni vestito, ogni armadio, ogni lettera, ogni disegno, tutto, senza una benché minima lacrima nemmeno davanti le foto ricordo. La madre stessa, ossia la figura universalmente ritenuta più sensibile nel nucleo familiare, le strappa senza battere ciglio. In queste scene la lucidità di Haneke emerge in modo magistrale: inquadrature solo sulle mani che rompono gli oggetti, mai sui visi, per poi ritornare con dei campi lunghi nei momenti del desinare tutti assieme. O per vedere la televisione, unico oggetto salvato da questa tipica famiglia borghese che, evidentemente, proprio non può farne a meno. Fatto questo che esalta una volta di più la loro lucida follia.

Questo è l'aspetto spaventoso. Perché una famiglia normale senza problemi di soldi (da brividi, per lo spettatore medio, quando Georg li getta, strappandoli, nello sciacquone) o di tradimento o di malattia, dovrebbe anche solo pensare ad un gesto simile? Portandosi dietro tra l'altro chi non può, obiettivamente, comprenderne tutta la follia, ossia la bambina? In realtà la piccola Evi sa cosa sia la morte, perché quando il padre rompe anche l'acquario e lei vede i pesci in terra, boccheggianti, in cerca di acqua, piange disperatamente sulla spalla della madre. Le scuse che le rivolge Georg sono sentite, non voleva causarle quel dolore. Eppure non vacilla davanti tutto il resto. Anzi, è proprio lui, prima di spegnersi, a scrivere sul muro le date di morte delle due donne della sua vita.
L'attacco critico di Haneke alla famiglia borghese è tanto puntuale quanto la decisione presa dai protagonisti. E non importa che ci siano dei familiari in gioco (il fratello di lei e i genitori di lui), dei principi religiosi (Evi e Anna dicono le preghiere ogni sera, ma il suicidio è risaputo essere peccato per un cristiano), delle ristrette amicizie. La scelta è presa.

Nel finale, mentre la televisione trasmette la perdita del segnale, le didascalie parlano di una storia vera da cui è tratto questo film. Verità? O l'ultima bugia detta dalla Evi nascosta in Haneke? Saperlo non è rilevante. E, in caso, è molto meglio non saperlo.

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Recensione a cura di marcoscafu - aggiornata al 13/11/2012 10.32.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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