Recensione il tempo che ci rimane regia di Elia Suleiman Belgio, Francia, Italia, USA 2009
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Recensione il tempo che ci rimane (2009)

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locandina del film IL TEMPO CHE CI RIMANE

Immagine tratta dal film IL TEMPO CHE CI RIMANE

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"Un popolo non è solo quel che fa, è anche quel che lascia fare"

Così recita una massima di Kurt Tucholsky, vergata da una mano anonima sul muro d'Israele.
Ed è esattamente così, un popolo è "soprattutto" quel che lascia fare! Basta prendere noi, per esempio. Siamo al punto in cui siamo perché da troppo tempo lasciamo fare; perché da troppo tempo assistiamo al degrado della nostra democrazia e allo scadimento morale dei nostri valori etici; perché da troppo tempo lasciamo che si inquini la nostra vita politica e si metta alla berlina la serietà delle nostre istituzioni; perché da troppo tempo subiamo la fascinazione del moralmente illecito e tolleriamo la diffusa anteposizione dell'interesse privato all'interesse pubblico.
Quando si consente tutto ciò, quando si volge il capo dall'altra parte, quando si giustificano i dettagli umilianti delle abitudini sessuali di un anziano seduttore, quando non si sente più l'urgenza della questione morale, allora si perde il senso e l'orgoglio di essere nazione e non si vale più nulla.

Per altri versi e in ben altri contesti, per il regista Elia Suleiman un altro popolo che da molto tempo "lascia fare" è il suo popolo: il popolo palestinese.

Cresciuto a Nazareth fra quei palestinesi etichettati come "arabi-israeliani" (cioè i palestinesi che dopo l'occupazione della Palestina da parte di Israele decisero di restare nella loro terra dove, ancora oggi, continuano a vivere come stranieri in patria), Elia Suleiman è un regista geniale e un attore di talento che, con poche e sapienti inquadrature e un linguaggio scarno ed essenziale, ci regala nel film "Il tempo che ci rimane" il ritratto di un popolo che "non ha più voce", un popolo il cui emblema è l'afasia che il Suleiman attore ostenta nel corso dell'intero film.

Partendo dalla vita in parte vera e in parte romanzata di suo padre, Elia Suleiman ripercorre un'epoca che va dal 1948, anno di nascita dello Stato d'Israele, fino ai giorni nostri, con uno stile ora ironico ora drammatico e con un tocco di amaro umorismo, tipico della disperazione, che pervade un po' tutti gli episodi raccontati.
Quattro episodi per narrarci la storia della sua famiglia e, in parallelo, l'epopea di un popolo privato delle sue radici e costretto ad essere cittadino israeliano senza desiderarlo.
Fatti ed avvenimenti tratti dai diari del padre Fuad e dalle lettere della madre ai parenti che non potevano restare in patria e che furono costretti all'esilio nella diaspora araba, ma anche dalle sue memorie di bambino.
Quattro episodi intrecciati fra loro dai capricci del caso (datati 1948 -1970 - 1980 e ai giorni nostri) sullo sfondo di una guerra ormai inestricabile, tragica, incomprensibile e apparentemente senza fine.
Quel che ne risulta è un variegato collage di vita quotidiana, fatto di piccoli eroismi e immobilismo fatalista, di ispezioni immotivate e controlli arbitrari che si susseguono per salti temporali, senza una trama ben precisa, intercalati tra loro solo dal gioco delle circostanze, con un unico fili conduttore: quello di denunciare il neo-colonialismo dell'Occidente (USA in testa) nel sud del mondo.

Il film inizia con un breve, folgorante incipit in cui vediamo Suleiman tornare a casa per rivedere la vecchia mamma, gravemente malata e morente. All'aeroporto sale su un taxi condotto da un israeliano e durante il viaggio, sotto un cielo plumbeo e gravido di pioggia biblica, si lascia andare all'onda dei ricordi per rivivere il momento dell'occupazione israeliana di Nazareth e il trauma di quella violenza su suo padre e sulla sua famiglia.
La pellicola poi si avvolge su se stessa e ci riporta al 1948, al tempo della creazione dello stato di Israele, con i palestinesi che da un giorno all'altro si ritrovano in casa degli ospiti forzati, che affermano che adesso quella terra è la loro, e quindi costretti ad essere stranieri in casa loro.
Il nucleo principale del film sono dunque i genitori del regista: il padre, giovane e utopista, coraggioso al limite dell'eroismo e tenacemente dedito alla causa palestinese, e la madre, una donna dolce ma fortemente determinata.
Due sono gli episodi del film che restano impressi nella memoria per la loro forza significativa. Nel primo, fortemente drammatico e incentrato sulla guerra di Palestina del 1948, vediamo l'idealista Fuad Suleiman che non accetta l'aggressione sionista e si arruola nelle fila della resistenza palestinese per difendere la sua terra e i propri ideali di libertà, rischiando in prima persona l'arresto e la prigione.
Nel secondo ritroviamo Elia Suleiman ormai adulto che, tornato in patria, assiste incredulo e muto nella Nazareth di oggi alla difficile, problematica convivenza sulla stessa terra di due popoli profondamente diversi, davanti a quel "muro dell'Apartheid" di Gaza, eretto per separare più che per proteggere, simbolo della sconfitta e della rassegnazione, che sogna utopicamente di superare saltandolo con l'asta.
In mezzo c'è la vita della famiglia Suleiman, la morte del padre, la giovinezza di Elia che eredita la condizione di persona sospetta e viene punito a scuola perché definisce imperialisti gli Stati Uniti, il suo esilio per la denuncia di un delatore, l'incontro con i vecchi amici dopo l'esilio.
Per tutto il film ci sono le piccole e grandi assurdità di una terra e di un paese ancora dilaniato da profonde contraddizioni e di un popolo che, nel corso degli anni, si è adattato a vivere da straniero in patria "il tempo che rimane".

Poetico, sarcastico, onirico, "Il tempo che ci rimane" è una pellicola profonda e intensa, in cui la drammaticità delle situazioni si stempera in una narrazione umoristica, agitata come un'arma impropria, la sola cosa veramente sovversiva in una situazione di stallo qual è quella mediorientale.
Certo non è la prima volta che un regista prende spunto dalla storia della sua famiglia e la cala nel contesto del suo paese, ma quel che Suleiman fa in "Il tempo che ci rimane" va ben oltre, perché per tutto il film gira la denuncia certamente partigiana ma onesta, non dei grandi crimini commessi da Israele sui palestinesi in oltre 60 anni di storia, ma delle piccole provocazioni, degli infiniti soprusi, delle assurde angherie che quotidianamente avviliscono il popolo palestinese.
La pellicola lascia allo spettatore ampia libertà di farsi una propria opinione, perché non è una lezione di storia manipolatrice quella che Suleiman ci impartisce, ma soltanto il ritratto di un popolo che imperterrito continua a vivere, nonostante tutto.
Sono appunti personali, riflessioni intime, istantanee sociologiche, in cui la realtà mostra il suo volto peggiore e il potere si manifesta nella sua forma più grottesca e crudele.
Sono emozioni intense, silenzi eloquenti, ironia soffusa, ciò che il regista ci mostra; eppure si ha la netta sensazione che il sorriso nasconda la frustrazione e la rabbia, ma non il rancore, perché gli ebrei di Suleiman sono prevaricatori ma non mostri.
Quello di Elia Suleiman è un cinema minimalista che racconta una storia massimalista, in un mondo incomprensibilmente vivo anche nei momenti più tragici e drammatici (un esempio su tutti: il ragazzo pedantemente puntato dal cannone di un carro armato, mentre incurante butta la spazzatura nel cassonetto di fronte casa sua e continua a chiacchierare al cellulare con gli amici per invitarli in discoteca), in cui ogni inquadratura è un'istantanea surreale di situazioni che si ripetono giorno dopo giorno, sempre uguali, sempre alienanti, ma che fanno sbocciare emozioni forti, un po' come sempre succede quando si entra nella pelle altrui.
Suleiman, che è anche eccellente protagonista dell'ultima parte del suo film in cui si concede il lusso di interpretare se stesso, si lascia andare ai ricordi della memoria e mette a nudo la sua vita privata più intima, saldando la propria visione delle cose alla realtà che lo circonda, dove il tragico si sposa al divertente e diventano le facce di una stessa medaglia. Ed è, appunto, alla luce di questo umorismo amaro che Suleiman rivive il ricordo di quella violenza antica che la sua afasia amplifica e rafforza, diventando al tempo stesso l'unica arma politica per affrontare l'incedere del tempo che ci rimane.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 28/01/2011 10.47.00

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