"In carne e ossa" è un film che cerca in una messa in scena minimalista il valore dell'indipendenza, ma finisce col trovare solo l'incompiutezza.
La scarsità di mezzi non è poi così evidente da giustificare il risultato, che infatti è conseguenza di una storia che latita e di un'impostazione registica non adatta.
La pellicola è costruita intorno al personaggio interpretato da Alba Rohrwacher, Viola, una ragazza affetta da depressione e anoressia che i genitori isolano in una grande e decadente villa immersa nel verde.
E sono proprio queste due statuine tragicomiche a presentare il carattere chiuso della figliola ancor prima che entri in scena.
Lui ha perso ogni interesse nella sua famiglia e qualsiasi capacità di amare, mentre lei è una madre annoiata e viziata dal lusso in cui ha sempre vissuto.
Si capisce che il carattere della figlia non nasce dal nulla. A questo punto che fa il suo ingresso il giovane psichiatra François, amico di famiglia, chiamato a risollevare le ormai pessime sorti di famiglia.
Sebbene sia velato, è forte il sospetto che il vero protagonista dell'opera sia lui, il deus ex machina, agente esterno che mina l'equilibrio dell'imperfezione familiare. La bolla dove si sono chiusi i tre infatti, benché fautrice di insofferenze, sembra reggersi sulla finzione e sull'incapacità di comunicare. I mali non vengono affrontati e passano nell'indifferenza, forse nella speranza, certamente vana, che i problemi rimangano nascosti nelle profondità dell'animo. La realtà però è diversa, perché è più che ovvia la consapevolezza da parte di tutti di vivere su un filo labilissimo pronto a spezzarsi
Al rompersi dell'illusione ci saranno amari risultati per chi lo merita, ma almeno qualcuno si salverà.
Il presupposto per quanto sia interessante, e perché no anche affascinante, è però difficilissimo da affrontare seriamente. A maggior ragione quando non si hanno degli attori in grado di esprimere il dolore vero emesso dai personaggi e quando il tutto latiti in sequenze spesso vuote, prive dell'empatia richiesta. In poche parole, non cattura. Il regista, vago nelle scelte, si lascia andare a volte in tentazioni introspettive, encomiabili ma semplici, a volte in atmosfere che dovrebbero essere angoscianti ma non lo sono del tutto, si vedano a proposito la scelta di illuminare la casa come se fosse un castello gotico (i colori accesi e irreali di Argentiana memoria), la prima cena di Viola o la stanzetta dove vive segregata la ragazza senza colorito.
I realizzatori non trasportano anima e corpo nella vicenda, finendo così con l'avere un prodotto a metà, fermo in un limbo, indeciso e purtroppo dimenticabile; a causa di una progressione di eventi in crescendo che non arriva mai, e che invece sarebbe servita a cambiare registro e dare foga alla storia. Inutile allora rimuginare su una strada che non curva in nessuna direzione, se ne riusciamo a vedere la fine forse c'è qualcosa che non funziona. L'inaspettato momento catartico qui non è proprio di casa.
La volontà di usare la cinepresa a spalla non è poi sempre felicissima, sia perché non è sinonimo di realismo e crudezza, sia perché in una vicenda che merita passaggi chiarificatori questa tecnica può portare confusione. E' più l'idea di amatorialità a passare, anche se così sappiamo non essere.
Sprazzi interessanti si intravedono comunque nel rapporto tra i due genitori, e questo è anche merito di Luigi Diberti e di Maddalena Crippa, attori di mestiere.
A suo agio in ruoli difficili sembra trovarsi la Rohrwacher, veramente convincente per merito dello studio e di una dedizione notevole. Curiosamente l'attrice fiorentina recitò in questo film prima di affermarsi al grande pubblico, dimostrando così una bravura di lunga data. Peccato, invece, che un ruolo fondamentale come quello dello psichiatra non sia stato trattato in maniera convincente da Ivan Franek, qui in una prestazione molto poco carismatica.
La verità è che si sarebbe potuto fare molto di più, rendere questo film più vitale e non lasciarlo passare come un film qualsiasi, interesse questo anche dell'autore, che crediamo volenteroso nel dimostrare capacità e forza.
Il cinema indipendente proprio in virtù della sua indipendenza dovrebbe permettersi la libertà di andare giù deciso e di colpire lo spettatore dove meno se lo aspetta, oltre a rendere il verbo "osare" una parola d'ordine, stampata in fronte ancor prima di scrivere una riga di sceneggiatura.
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Recensione a cura di matteoscarface - aggiornata al 24/11/2010 10.34.00
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