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La maschera bianca di un morto celebre - in verità quella che indosserà celando(si) la verità - e lunghi fucili ordinatamente sistemati (armi di difesa contro un Nemico purché sia). Ha i tratti somatici del cinema di Clint Eastwood "J. Edgar", che con questi oggetti significanti comincia la sua ricognizione/(raf)figurazione di Hoover, lo storico imperatore del Federal Bureau, poi conosciuto come (e fortificato in) FBI, che stroncò bolscevichi e radicali rimpatriandone la maggior parte, risolse il caso Lindbergh, avvallò il maccartismo e perseguitò comunisti e pantere nere, attraversando indenne il governo di otto presidenti americani, da Wilson a Nixon.
Persona(ggio), dunque, respingente, che tentò per tutta la sua vita (più appropriato definirla la sua missione, il suo incarico) di tenere in piedi il baluardo scricchiolante della bandiera americana,la sua madre patria, con un invasato patriottismo che giunse a farne l'asettico mitizzatore della propria figura, auspicante di divenire eroe nazionale mentre per tutta la vita rimaneva a guardare i veri, iconici idoli dal suo balcone. Ma Hoover fu anche il geniale stratega in grado di creare un canale di centralizzazione tramite un'organizzazione di vasi comunicanti, di captare (poi tramutandola in ossessione di controllo) l'essenzialità dell'informazione, di mettere i bastoni fra le ruote al Ku Klux Klan, di attutire la criminalità nel paese. E tuttavia era molto più di un furbo ispettore federale, o molto meno, J. Edgar, nemico dell'inadempienza politica, che considerava segno di slealtà persino un abbigliamento inappropriato, che si faceva intorno terra bruciata di qualsiasi contrasto di pensiero, che era solo ancor più che solitario, e sul quale troneggiava dominante, limitando la sua personalità, l'altera Madre Padrona dalle parole taglienti come lame spietate ("meglio un figlio morto che un figlio gerbera" dichiara nel buio affilato una spaventosa Judi Dench). Da lei Hoover era totalmente soggiogato, e la sua morte su pellicola dà adito alla cannibalizzazione di un momento alla "Psycho" che la bravura di Leonardo DiCaprio rende dolorosissimo: quando arriva a diventare la madre, pur di fustigare e castigare per l'ennesima volta la propria debolezza, e strapparsela forzandosi addosso le catene materne.
Ed è per l'appunto straordinario l'ormai infallibile DiCaprio, concentratissimo nella sua metamorfica elaborazione fisica e mentale di Hoover, scrutandoci dall'inizio alla fine con un'espressione in cagne(y)sco (non a caso vediamo il trailer di "Nemico pubblico" e il poster di "G-Man"), la pelle rattrappita su se stessa, pervasa da crepe e fratture: non si scorge nessuno spiraglio in quel volto-prigione dai lineamenti ritraentisi fino a scomparire nella carne quando, da anziano, incatenato alla poltrona, si sente assediato e a rischio di contagio da chiunque entri in contatto con lui; sensazione pervicace e stimolata persino delle figure più di contorno (l'agente che lo interroga, ritratto sputato di Obama), oltre che dall'odiato Bobby Kennedy e da Martin Luther King che deve 'mandar giù come la flebo che iniettata mentre ascolta il suo discorso, e guarda la vita sfilargli giù dabbasso, corse di cavalli, le uniche vittorie di cui può beneficiare'.
Facendo di un discorso cinematografico che vola alto nel finale (laddove l'affabulazione è questione di punti di vista) la struttura portante, dunque non soltanto né meramente classica, lo sguardo di Eastwood, che osserva questo Citizen Kane del secolo scorso con la giusta distanza, e non truffa con l'imparzialità del giudizio scremando qualsiasi dubbio di rappresentazione: è chiaro non tanto chi è, quanto chi J. Edgar Hoover ha rappresentato, e ce lo conferma in sottoimpressione l'unica persona a cui non poteva mentire. J. Edgar è l'America: l'America che si fregia di trionfi ingannevoli, l'America che reprime le pulsioni di disuguaglianza, l'America che deraglia nell'ostruzionismo e nella demonizzazione, l'America che ancora si vergogna di se stessa.
"Non dobbiamo dimenticare la nostra storia" è l'estremo monito, ma la storia personale di Hoover è il cimitero di sentimenti mai nati, di esperienze mai vissute, di caratteristiche mai coltivate, di ali tarpate che vorrebbero spiegarsi nel cielo, scontrandosi invece contro un plumbeo soffitto che lo schiaccia: tragedia individuale che rispecchia quella collettiva, parabola discendente sulla corrosività e l'essenza di pietra tombale del potere. Composto come una corposa messa funebre compressa in un bianco e nero dell'anima e in un sistema di chiaroscuri opprimente, "J. Edgar" s'impone come l'impronta digitale di Hoover con tutti i suoi bordi smussati e ambigui, simbolo paranoide dell'inadeguatezza di affrontare il proprio lato oscuro, celandolo ed espandendolo con l'additarlo ad altri nomi, meccanismo a macchia d'olio e a doppio taglio; ma sono gli squarci sull'uomo ad elevare lo sguardo del regista ad una dignitas umana e denudata da qualunque blanda, archeologica aneddotica.
E infine, cinquant'anni dopo, nel suo ufficio/fortezza niente sembra cambiato, salvo la macerazione dei corpi che vi aleggiano senza soluzione di continuità, in un un'opera di trucco e parrucco quasi grottesca. Tutto è claustrofobicamente fermo in un tempo immobilizzato perché non può mai essere se stesso, lui, quell'essere umano meschino e refrattario all'autenticità repressa: quasi come se fosse stata la paranoia a consumare fino a mummificarli lui, Helen (fedele segretaria in bilico tra affetto, devozione e scetticismo) e Clyde Tolson, inesistenti al di fuori di quel carcere emotivo. Figura fondamentale quella di Tolson (l'Armie Hammer dagli occhi blu, unico tocco di colore in un mare nerastro), cui lo lega un rapporto strettissimo, finanche morboso, descritto con delicatezza in alcune scene in cui è racchiuso tutto il loro amore, inespresso se non con la frustrazione derivante dall'inappagabilità dello stesso (il litigio furibondo) e con il candore della commovente chiusa. Tolson, che è stato per tutta la vita più che braccio destro sua ombra, alla fine lo diventa nella sostanza, la prima volta che (non) lo vediamo: scarnificato, arginato dietro il vetro indistinto e scheggiato di una porta, là dove si annidano tutti i fantasmi.
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Recensione a cura di Fiaba - aggiornata al 13/02/2012 16.01.00
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