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"Il cinema ha il compito di raccontare realtà che altrimenti non si conoscerebbero. Il cinema più di ogni altra cosa ha questa forza, questa potenza".
Con queste parole il regista Enrico Pau, professore di lettere e regista impegnato, presenta il suo film tratto da un romanzo di Massimo Carlotto.
Non è un caso se questa dichiarazione può essere tranquillamente accostata al nome di Carlotto, lo scrittore che forse, più di chiunque altro negli ultimi anni, ha saputo meglio rappresentare le tragedie di vite comuni nell'Italia della provincia, qualunque essa sia, e descrivere con accuratezza storie diverse di comuni mortali in un'Italia sotterranea e abbandonata a se stessa.
La realtà del carcere e della latitanza, che lo scrittore ha vissuto di persona, sono il perno centrale della storia di Jimmy, un ragazzo di quasi diciotto anni della provincia di Cagliari, che per sfuggire a una vita destinata, come suo padre e suo fratello, al lavoro in una raffineria petrolchimica decide di tentare il tutto e per tutto con una rapina, destinata a fallire ancora prima di cominciare.
"Jimmy della collina" è quello che si potrebbe definire un film di genere realistico, perché se il tema e l'ambientazione sono quelli del film carcerario, la mise en scène è di chiaro intento realista, a tratti impegnato. Nulla a che vedere con i prison movie ai quali siamo stati più o meno abituati: se si può azzardare un (non) paragone il film di Pau è quanto di più lontano si possa immaginare da un prototipo del genere come "Le ali della libertà" di Frank Darabont.
Una pellicola di fatto interessante, non senza qualche caduta di tono alla fine, come la confessione forzata e francamente non indispensabile di Claudia, la ragazza che ha il compito di assistere i ragazzi nel carcere minorile, o l'ultima inquadratura, ma che ha sicuramente dalla sua molti lati positivi. Enrico Pau, pur non essendo un regista di professione, affronta il tema con mano sicura, senza essere banale ed evitando con cura i soliti cliché del genere, presentando dei personaggi ben marcati, coperti da un velo di malinconia, consapevoli di quello che poteva essere e non è stato, a tratti anche teneri nel loro pietismo.
Bravissimi gli attori non professionisti, quasi tutti senza esperienza alle spalle, e l'esordiente Nicola Adamo, al quale va riconosciuto il merito di aver retto quasi tutto il film sulle proprie spalle, mentre Pau lo mette ripetutamente alla prova con lunghi primi piani introspettivi.
Se comunque questi aspetti della pellicola saltano subito all'occhio, va aggiunta una nota dolente a tutto il lavoro. Infatti il film soffre del complesso che attanaglia molti film italiani dell'ultimo periodo, che siano a basso, medio o alto budget. Queste pellicole riescono a guadagnarsi le partecipazioni e i premi nei festival di tutto il mondo e i favori di un pubblico ristretto ma molto appassionato, riescono persino a stupire di quando in quando, ma pur rimanendo opere di grande interesse e valore non riescono ad essere incisive, osano ma non troppo, per fermarsi su quella linea di confine invisibile che separa il cinema italiano da quello internazionale.
Si esce con la convinzione che solo un pubblico d'essai potrà arrivare a comprendere l'opera, come se una barriera che ci siamo imposti evitasse di spingersi oltre.
Rimane la consapevolezza che il nostro cinema potrebbe tornare alla vecchia gloria, di cui si sente incredibilmente la mancanza, e il dolore di un cappio che si stringe inesorabile intorno alle novità migliori, alle idee originali e soprattutto alla buona volontà e alla passione di tanti cineasti e semplici mestieranti. Dispiace, perché di sicuro i talenti non mancano.
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Recensione a cura di matteoscarface - aggiornata al 21/04/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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