Recensione la contessa bianca regia di James Ivory Gran Bretagna, USA, Germania, Cina 2005
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Recensione la contessa bianca (2005)

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locandina del film LA CONTESSA BIANCA

Immagine tratta dal film LA CONTESSA BIANCA

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Immagine tratta dal film LA CONTESSA BIANCA

Immagine tratta dal film LA CONTESSA BIANCA
 

Ha un titolo fuorviante questo film di Ivory, che evoca stranamente il romanzo di appendice e il feuilleton ottocentesco, se non addirittura la telenovela. Ed è forse per questo che gli uffici pubblicitari della produzione tendono a spacciarlo per "una grande storia d'amore", calcando i toni sugli aspetti erotico/sentimentali, che vi compaiono, invece, in modo molto sfumato.
Di antiquato, se vogliamo, un po' oleografico, potremmo trovare una certa lentezza e la mancanza di ritmo della narrazione, appesantita da reiterazioni varie. Anche se ciò potrebbe addebitasi non tanto al "bradipismo" della regia, quanto alla matrice orientale, essendo la vicenda derivata da un romanzo giapponese, di Junichiro Tanizaki, autore del "Diario di un vecchio pazzo".

Orientaleggiante è anche il calligrafismo del protagonista, che ambisce a costruire all'interno del suo locale un mondo utopico di perfezione virtuale; non morale, ma maniacalmente estetizzante, come nella dimensione di sogno in cui la cecità lo ha relegato, quasi a volersene affrancare.
Per raggiungere il suo intento, però, stante la grave infermità, ha bisogno di una presenza a fianco, di un alter ego mentore e amoroso che lo affianchi nel difficile compito. Come arrivi ad identificare tale figura nella Contessa russa decaduta al ruolo di entraineuse, non risulta ben chiaro.
Quasi per una folgorazione medianica, o per transfert, il giovane diplomatico, divenuto cieco per attentati costati la vita a moglie e figlia, individua nell'aristocratica "belle de jour" la carta vincente del suo nuovo destino, facendone la stella del suo locale. Del quale bisogna parlare, ovviamente, in chiave puramente simbolica, non potendosi riconoscere all'ambiguo, frivolo e vizioso bistrot "La Contessa Bianca" una patente di vera nobiltà.
Mentre, in effetti, costituisce l'evidente metafora di un microcosmo solipsistico, dove l'individuo, sprovvisto di strumenti idonei e necessari a comunicare e a gestire un potere, si rifugia al chiuso di quattro mura, sicuro e protetto come nella sacca amniotica natale. Non a caso, sotto le ali protettive di una madre amorosa, nutrice e rassicurante.

Dunque, non una storia di eros, come la banale propaganda della produzione va insinuando, ma, al contrario, di un'altra specie di amore, di tipo platonico e spirituale, dove l'incontro degli individui segue prima le vie dello spirito che quelle della carne.
Di Edipo, dunque, si tratta, se vogliamo: di un uomo alla ricerca simbolica del calore materno, come nell'infanzia, dove senza non si potrebbe vivere. E di una donna, che, ben prima che dell'appagamento sessuale, ha bisogno di un padre a cui appoggiarsi per avere protezione, sostentamento e legittimazione sociale.
Che è poi la storia raccontata nel film, dove la fascinosa contessa russa decaduta si prostituisce in locali equivoci di Shangai per mantenere la nobile famiglia di nulla facenti, che la sfrutta, ma, ovviamente, la disprezza.
E in questa grave ipocrisia possiamo ravvisare una prima interessante chiave di lettura del film. La seconda, e direi la principale, sta proprio nella raffigurazione di una forma d'amore così diversa da quella dei consueti clichés commerciali; non legata alla passione dei sensi, alle follie dell'innamoramento, al desiderio morboso del possesso e a sentimenti consimili, destinata dunque a spegnersi presto. E comunque di impronta fortemente egoistica.
Ma, invece, ad un'altra di segno completamente diverso, che matura passo passo col crescere della conoscenza reciproca, fondata sulla solidarietà, sul reciproco sostegno e sulla affidabilità; destinata pertanto a durare nel tempo, perché pilotata da bisogni fondamentali del vivere: un amore più etereo e platonico, di tipo sororale in partenza, ma che può infine accendersi, e sopravvivere più a lungo.
Per intenderci, non l'amore accecante ed effimero delle coppie giovani, ma semmai, quello lungimirante, profondo e duraturo delle (poche) coppie che sanno invecchiare insieme: fondato essenzialmente sull'accettazione dell'altro, sulla comprensione e sull'altruismo (ricordiamo che il protagonista offre all'amata i soldi per partirsene da sola, senza pensare al proprio dolore!).

Per queste ragioni il film si può considerare riuscito, oltre che per una fotografia di eccezionale calibro e per la splendida recitazione della protagonista. Ulteriore motivo la scelta del particolare contesto scenico e storico, che ci ricollega ai romanzi di Malraux sulla Cina in epoca rivoluzionaria ("La condizione umana" - "I conquistatori"). Dove la vita degli occidentali, in un paese colonizzato che vorrebbe escluderli, non può non collegarci alle odierne vicende del mondo globale e della nostra occupazione dei paesi arabi del medio oriente.
Qualcuno ha detto che il film non "contestualizza abbastanza", e che le immagini della guerra piovono addosso inaspettate, come a caso. Ma questa, invece, è forse la sua nota più vera e credibile! Quando mai un comune mortale si avvede preventivamente degli eventi bellici? Anzi tende a scherzarci, rimuovendo le paure interiori! E pensando a Danzica, all'invasione giapponese di Pearl Harbor o all'11 Settembre, chi di noi non sarebbe stato preso alla sprovvista??
In realtà i destini del mondo si muovono al di sopra delle nostre vite modeste, in un tragico teatro delle marionette dove a tirare i fili è un ristretto pool di politici, incoscienti, immorali, assetati di potere e rosi da una illusione di eternità! E chi vuole, ci legga una profezia!

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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 24/02/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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