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Il celebre manifesto di Tony Manero col dito puntato verticalmente verso le smaccate luci al neon delle discoteche, sottilineato dall'emblematica frase "Where do you go when the record is over..." sembra appartenere alla notte dei tempi: è tutto così obsoleto e (a modo suo) inquietante pensare che pochi decenni possano bastare per dichiarare vetusto un fenomeno di cui, nel bene e nel male, molti di noi sono stati testimoni, mentre è ancora tremendamente cool la rappresentazione e l'amarcord di realtà che non abbiamo mai potuto, per motivi anagrafici, conoscere direttamente.
Negli anni in cui imperversava la disco-music, il mitico Studio 54, e il glamour iperkitsch della moda del ballo, a Londra scorrevano i ben più frenetici aneliti del punk, fino a diffondersi a macchia d'olio un po' in tutto il mondo, come racconta felicemente Spike Lee nel sottovalutato e bellissimo "Summer of Sam".
Due mondi diametricalmente opposti mettevano in risalto antitetiche classi sociali, o meglio la società dell'apparenza (la disco-music), anche nella sua eccentrica trasgressione, e quella dell'Underground più retrivo e temuto (il punk, con il suo spirito del '77).
La nuova generazione non è disposta a rischiare molto: si laurea, cerca un lavoro, tira avanti. E una volta la settimana, il sabato sera, esplode" così un giornalista dell'epoca, Nik Cohn, raccontava la generazione della disco-music, il suo edonismo (Tony Manero è stato per anni un modello edonista, anche fuori dal cinema), la sua capacità di essere squisitamente popolare nel linguag-gio, nella forma, negli atteggiamenti.
Non era certamente un vanto: per chi ha vissuto la generazione precedente, la grande Utopia degli anni sessanta, la psichedelia e le prime forme più o meno evolute di hard-rock, questa sorta di voltafaccia conformista equivale a una sconfitta. Paradossalmente, proprio dove l'esibizione fisica, l'ammiccante invito all'eros di massa (e incentivato a tutte le realtà omo, bisex, lesbiche, etc.) della disco-music ha una sua importanza di facciata, questa forma di rassicurante "ribellione" contiene più i germi del conservatorismo che di un'autentica provocazione modaiola.
In realtà "Saturday night fever" è un film particolare, che ha tratto beneficio dalla disco-music senza essere particolarmente predisposto ad assecondare l'unica realtà incontrovertibile di una moda diffusa.
Il pop-business, grazie alla disco-music, ha avuto effetti insuperati (con l'eccezione forse dei new romantics degli anni ottanta), retaggio di accessori più o meno diffusi come i posters nella camera da letto dei personaggi favoriti, la resistenza perenne dei juke-box (come ai bei tempi del rock and roll prima maniera), il feticismo dei gadget, degli amuleti, degli anelli e dei crocefissi stampati sui petti tra le giacche fucsia, le scarpe rialzate (retaggio della breve rivoluzione glam), le acconciature eccessive, i toraci villosi e le camicie attillate e provocatoriamente sporgenti.
Tony Manero appariva già ridicolo e sorpassato qualche anno più tardi (si ricordano le tante difficoltà di Travolta di recuperare il successo agli inizi degli anni ottanta) ma, proprio per la sua incoerente presunzione, molti di noi lo adoravano.
L'uomo è dominato dal desiderio di essere al centro dell'universo (o di una pista da ballo), diviso tra l'apparente interesse di una ragazza poco attraente (Annette) e, non dimentichiamolo, per l'attrazione sociale verso Stephanie, ragazza dei quartieri alti (Karen Lynn Gorney sembra un'antenata di "Sex and the city") capace di gonfiare la sua posizione più del dovuto.
Il denaro, l'ambizione, si concludono in realtà con una via di fuga che lascia sgomenti gli spettatori del film, capaci di appropriarsi soprattutto della frivolez-za glamour di Manero quando vince una gara di ballo.
E' proprio questo il limite del film, la sua immensa popolarità presso il grande pubblico: l'intuizione di assurgere a star-system facendo passare in secondo piano gli (interessanti) risvolti drammatici della storia.
In effetti, "Saturday night fever" non è "soltanto" una cassa di risonanza per un fenomeno musicale, come è accaduto con "Grazie a Dio è venerdì" o "Can't stop the music", o "The stud", ma si avvicina a quella tipologia di immaginario collettivo che avrebbe potuto trovare (v. "In cerca di Mr. Goodbar") negli script un interesse "artistico" di un certo peso. Cinematograficamente parlando, s'intende.
Ricordare "How deep is your love", "Saturday night fever" o "Staying alive" dalle voci in falsetto dei Bee Gees, o le schermaglie finto- amorose di Annette e Tony, i duetti dello stesso con Stephanie nei vorticosi passi di danza delle serate "disco" può essere fonte di nostalgia, ma non per questo il film deve essere condannato a una frivolezza che, talvolta, non possiede.
Tony Manero, figlio di genitori italiani a Brooklyn, vive già una situazione di febbrile disagio nell'ambiente familiare, dove deve sottostare a più riprese a forti tensioni con i genitori, che in definitiva gli rimproverano di non essere sufficien-temente motivato per un futuro soddisfacente.
Soltanto attraverso un lavoro che detesta (lavora in un negozio di ferramenta) riesce a racimolare la cifra necessaria per trascorrere il sabato sera nelle discoteche, dove è ammirato da tutti per la sua abilità di ballerino.
Il narcisismo e la vanità con cui Manero si prepara alla serata lascia intendere, vero, un deliberato sottinteso omosessuale, ma è soprattutto nel suo rapporto con le donne (Annette innamorata di lui non è ricambiata, Stephanie si sottrae decisa a un suo tentativo di violenza) che il personaggio di Tony sembra completamente in balìa del suo amor proprio o, forse, di una beffarda superficialità.
In tutto questo percorso, lo spettatore non ha modo di identificarsi in lui, ma di poterlo "raggiungere" soltanto attraverso l'eco (lontano, da music-business) della musica e della danza.
Eppure John Badham riesce a rendere credibile anche il suo apparente ego(t)ismo, e in diversi frangenti: nelle lotte di quartiere con i portoricani, nell'abnegazione e nella ribellione verso gli amici e le loro realtà ristrette, nel gesto eroico e imprevedilmente coraggioso con cui consegna la coppa della vittoria agli avversari (portoricani) convinto che la giuria abbia dei veri e propri pregiudizi razziali.
Un'altro esempio dell'escalation di Tony verso una consapevolezza morale e meno retriva della vita è il drammatico suicidio dell'amico Bobby, che si getta nelle acque dal ponte di Brooklyn: Tony ne resta sconvolto e pensa di non aver fatto abbastanza per impedirlo.
Nell'epilogo finale, l'Eroe delle piste da ballo rimane solo contro tutti, ma troverà modo di recuperare il dialogo con Stephanie, e forse il senso del sentimento che prova per lei.
La scena in cui Travolta cerca di possedere Stephanie con violenza, per esempio, è stata al centro di molte polemiche. La stessa regia di Badham, al di là delle sincere implicazioni sociali della vicenda, rischia spesso di diventare inutilmente scabrosa e gratuita.
Nel film prevalgono quei rituali collettivi, fatti di alcool, droga e violenza (come negli istinti bestiali degli amici di Tony che violentano a turno Annette in auto) che, in un certo senso, costituiscono un'allarmante e recidivo fenomeno della "politica dello sballo", anche (purtroppo) in tempi recenti.
Ma, nel suo svolgimento tutt'altro che rassicurante, il film ha fatto epoca e non se ne possono negare le ragioni: la mise in scene statuaria di un divo come Travolta, incolpevole eroe di una generazione leccata e glamour capace comunque di assistere all'"ultimo spettacolo" prima di chiudere il sipario, arresi al proprio fatalismo.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 23/11/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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