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Ogni pellicola firmata da Friz Lang costituisce un pilastro fondamentale per chiunque si sia applicato dietro la macchina da presa, poiché la vastità degli argomenti affrontati e il modo con il quale le pellicole sono state realizzate si rilevano evidenti perfino in capolavori firmati Hitchcock e Welles.
Con "Beyond a reasonable doubt", tradotto riduttivamente in "L'alibi era perfetto", l'argomento affrontato è il doloroso tema della pena di morte.
È giusto che uno stato moderno si ponga allo stesso livello dell'assassino? Oppure la struttura del sistema giudiziario è tale da assicurare idonee garanzie, dal momento che il verdetto che la giuria è chiamata ad esprimere deve essere mediato e filtrato dalla convinzione che la colpevolezza sia al di là di ogni ragionevole dubbio?
Questi sono gli interrogativi che si pone il direttore di un giornale assistendo all'ennesima esecuzione capitale, in compagnia del suo futuro genero, uno scrittore fresco del successo del primo romanzo appena pubblicato.
L'osservazione è puntata soprattutto sulla Pubblica Accusa: quanto può contare il modo con il quale si gestisce l'impianto accusatorio se il procuratore si sta muovendo in vista di candidature politiche?
Nel corso di queste disquisizioni, il direttore del giornale elabora l'idea di creare – in occasione di un eventuale prossimo omicidio – un nucleo di prove a carico di una persona palesemente innocente in modo da provocarne la condanna a morte. Solo in prossimità dell'esecuzione, lo stesso si farebbe carico di dimostrare l'artifizio in modo da rendere evidente il rischio altissimo di sbagliare nella condanna.
L'omicidio non tarda ad arrivare, e i due si mettono all'opera acquistando abiti e oggetti da connettere al probabile assassino. Ogni particolare viene corredato da fotografie e documenti, in vista della prova da fornire al procuratore. Ovviamente tutto è celato agli occhi di chiunque, anche a scapito della storia d'amore che lo scrittore sta vivendo.
L'arresto giunge inevitabile, come l'imponderabile: in un incidente d'auto il direttore perde la vita e nell'incendio svaniscono tutte le prove della macchinazione a carico della pena capitale.
A partire da quel momento, le lancette delle ore che separano l'esecuzione della condanna sembrano accelerare e nulla può dare sostegno alle assurde affermazioni del colpevole di omicidio.
Quale sarà il finale del film? Ovviamente non possiamo dirlo in questa sede, ove possiamo solo trarre i dovuti spunti di riflessione.
Evitiamo la domanda più ovvia in tema di pena di morte, ovvero se sia giusta o meno, e cerchiamo di accostarla per vie traverse: la giuria, composta da persone selezionate sia dalla Pubblica Accusa che dalla difesa, è chiamata ad esprimersi all'unanimità, ma forma il proprio convincimento sulla base, prevalentemente, delle circostanze rappresentate in aula. Cosa accade quando la difesa, il più delle volte, viene esercitata da avvocati d'ufficio, privi di esperienza, di mezzi e di volontà per assicurare non solo un equo processo all'imputato, ma che quella rappresentazione si avvicini il più possibile alla realtà?
Accade che la Pubblica Accusa abbia il potere di confezionare artatamente una realtà diversa, magari non comunicando elementi favorevoli all'imputato ("Doppio taglio"), inducendo la giuria a ritenere che il colpevole sia l'accusato perché non sarebbe possibile né logico accusare un'altra persona ("Il momento di uccidere") sfruttando pregiudizi di classe e razziali; o perché esiste di base una inconscia volontà popolare di addossare su una specie di capro espiatorio tutte le colpe, trasferendo l'illusione di aver cancellato tutto con la morte di un singolo ("Suspect").
Lang si tiene molto al di fuori di un discorso di parte. La costruzione della trama, e il suo sorprendente finale, dove a fare le veci dello spettatore e di chiunque sia messo di fronte a un dibattito simile è una Joan Fontaine mai più così sofisticata e fatale, è tale da rendere impossibile una risposta univoca alla domanda: è giusta la pena di morte? E al di là di ogni ragionevole dubbio va anche il rischio di condannare un innocente o di tenere fuori un colpevole?
Tim Robbins nel suo "Dead man walking" indugia in maniera esasperante sulle sequenze degli aghi che entrano nelle vene del condannato Sean Penn, del sedativo misto a veleno che viene spinto dalle siringhe automatiche, del respiro che si ferma e della vita che lascia un corpo quasi ironicamente disposto a mo' di crocifisso nella angusta stanza dell'iniezione letale.
In tale momento, a nessuno viene in mente che si tratta di un assassino, se non fosse per la sovrapposizione delle sequenze del duplice omicidio che egli ha confessato. I due ragazzi appaiono per un istante come angeli custodi, nobilitati dall'essere spirito per colpa di una mano che li ha strappati a una vita che stavano mordendo, quasi a voler significare che la morte li rende ormai uguali e che sono pronti ad assistere anche loro non tanto all'esecuzione, ma alla tragedia di una vita che si spegne. Solo che cambia la mano che toglie quella vita. Che cosa si è risolto?
E se questo "scherzo" di Tim Robbins sembra costruito ad arte per strappare una lacrima (cosa che non rientra nello stile disturbante dell'autore e della sua gentil consorte) o per riunire tutti alla meditazione intorno all'argomento, si sappia che non è una novità: anche Robbins evidentemente ha visto e assorbito "Beyond a reasonable doubt".
Alla fine del film, manca solo che Joan Fontaine si giri verso lo schermo e chieda consiglio allo spettatore: "Che cosa faresti al mio posto?".
Due curiosità:
- "Beyond a reasonable doubt" è stato recentemente rivisitato in una pellicola in cui Michael Douglas interpreta un procuratore senza scrupoli. Il risultato, per chi ha visto Lang all'opera, è a dir poco patetico, poiché privo del tutto della sostanza che ha dato vita al film.
- Il personaggio interpretato dalla Fontaine richiama moltissimo la signora Wendice de "Il delitto perfetto" di Alfred Hitchcock: la grazia e l'eleganza di Grace Kelly, superba al principio del film, si trasformano sempre di più verso la fine, quando rischia la condanna, diventando smorta e priva di colore.
Joan Fontaine all'inizio del film appare come una donna inavvicinabile, seppur innamorata, per poi diventare sempre più gracile e sofferente fino all'epilogo finale, dove veste di nero (non solo per il lutto del padre) e dà maggiore e unico risalto al volto che implora una soluzione.
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Recensione a cura di antoniuccio - aggiornata al 15/10/2010 11.16.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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