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Un po' fuorviante nel cotitolo italiano anche se non del tutto fuori luogo, (Amore tradotto come traslato di condotto, in quanto i due protagonisti si innamorano o sono sul punto di farlo perché indotti o condotti dalla situazione in atto) il film minimalista al punto giusto narra della affinità elettive di due anime perse nella solitudine della fredda Tokyo.
All'inizio il film assume le vesti di un documentario su usi e costumi della capitale nipponica, abbondano infatti le inquadrature sui giovani in trance davanti ai videogiochi ipertecnologici nonché i soliti stereotipi
sui tipici convenevoli in uso tra i giapponesi e ci sono lunghe scene silenziose con i protagonisti alla scoperta di questa città moderna e antica nello stesso tempo.
Murray non brilla certo per espressività ma forse è proprio la sua fissità a rendere meglio il suo stato d'animo di uomo stranito ed estraneo, deluso da tutto e apatico ad ogni possibile modifica della sua vita.
La regista cade nello stereotipo anche quando fa tradurre "Guardi verso la telecamera" una frase lunghissima pronunciata dal regista dello spot pubblicitario, sicuramente una trovata che potrà soddisfare i palati facili ma che comunque vuole ingenuamente rendere il titolo originario e cioè la difficoltà oggettiva di capire il prossimo se ci si deve affidare a una traduzione. La satira contro la televisione giapponese prosegue quando il protagonista accetta di intervenire come ospite in un popolare quiz. L'espressione del malcapitato e l'atteggiamento di chi lo circonda contribuisce a rendere il disagio di Murray e anche il disappunto per il
grado di insipienza dei programmisti nipponici (da quale pulpito poi?).
Il film assume una vena più intimista e malinconica quando comincia a narrare del quasi amore tra un uomo di mezz'età deluso e decandente e una giovane ventenne in crisi.
La storia prende vita piano piano per occupare l'intera seconda parte. E' l'incontro tra le delusioni di due generazioni lontane, un uomo di mezz'età benestante che ha moglie e figli ma che comunica con loro solo per
discutere sul colore di una moquette ed una ragazza laureata a Yale sposata da poco ma che ha visto sgretolarsi i suoi sogni nella solitudine di un grande albergo. Memorabile la scena che vede la protagonista accovacciata sul
finestrone della stanza ad osservare il panorama fatto da altrettanti impersonali grattacieli e il suo continuo vagabondare tra le stanze infinite dell'albergo.
La storia tra i due è raccontata con grande discrezione e il massimo di erotismo che si concede è un lento sfiorarsi i piedi mentre i due inquadrati dall'alto parlano distesi uno accanto all'altro nel letto della camera
d'albergo di lei.
Finale un po' amaro copiato in parte ad altre pellicole della tradizione americana (vedi l'incontro nel parco tra Jane Fonda e Robert Redford in "A piedi nudi nel parco") ma aperto a una speranza di cambiamento da parte dei due protagonisti.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 22/03/2004
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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