Recensione la nave dolce regia di Daniele Vicari Italia, Albania 2012
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Recensione la nave dolce (2012)

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locandina del film LA NAVE DOLCE

Immagine tratta dal film LA NAVE DOLCE

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Immagine tratta dal film LA NAVE DOLCE

Immagine tratta dal film LA NAVE DOLCE
 

"In televisione vedevo che tutti mangiavano cioccolato e biscotti... quindi mi aspettavo che al mio arrivo in Italia ci accogliessero come minimo con una stecca di cioccolato... L'idea che mi ero fatto del vostro Paese era che forse non era necessario lavorare, pensavo che eravate tanto ricchi che lavorare fosse una prerogativa di pochi".
(Gentjan Bequiri - ex detenuto albanese in Italia)

È questa la falsa e fuorviante immagine del nostro Paese che la televisione italiana e soprattutto quella commerciale, per anni, ha diffuso presso la popolazione albanese.
Infatti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha e il conseguente venir meno del divieto di guardare le trasmissioni che arrivavano dall'altra parte dell'Adriatico, i programmi televisivi italiani, con i quiz milionari e con gli show del sabato sera, pieni di ragazze tutte lustrini e paillette, che promettono un futuro di fama, popolarità e ricchezza, sono entrati nelle case di tutti gli albanesi, agli occhi dei quali il nostro paese appariva come una sorte di Eldorado, o di terra del Bengodi.
Gli albanesi hanno così interiorizzato una visione distorta e deformata della realtà italiana, che rappresenta per loro ciò che l'America aveva rappresentato per gli emigranti italiani nel secondo dopoguerra: la speranza di una vita migliore e di un futuro più certo.

Fu questa, forse, la principale ragione che, circa venti anni fa, spinse decine di migliaia di albanesi a prendere d'assalto una nave e costringere il comandante a fare rotta verso quell'Italia conosciuta solo per averla vista luccicare nei programmi tv.
Era il 7 agosto del 1991 quando una notizia si diffuse in tutto il paese, arrivando perfino a Tirana: "il porto di Durazzo è aperto". Decine di migliaia di persone, senza uno scopo ben preciso, si precipitarono allora sulla banchina del porto e assaltarono, letteralmente, la nave mercantile Vlora, appena rientrata a Durazzo con un carico di tonnellate di zucchero, proveniente da Cuba.
Non si fece in tempo a scaricarla perché 20.000 persone fra uomini, donne, ragazzi e bambini, in pochissimo tempo salirono a bordo e, senza avvisare nessuno, parenti o amici, costrinsero con la forza il comandante a salpare verso la "terra promessa", le coste italiane, desiderosi soltanto di fuggire dal loro Paese e da una situazione divenuta ormai insostenibile. Il Vlora era un vecchio e malandato mercantile, costruito negli anni '60 nei cantieri navali di Genova e mai sottoposto a manutenzione, aveva un motore in avaria e a bordo non c'era cibo e neppure acqua (ad eccezione della grande quantità di zucchero, di cui si nutrirono molti dei passeggeri).

Quando, dopo una notte di viaggio, la nave giunse in vista del porto di Brindisi, dove i malavitosi armati, presenti a bordo, l'avevano costretta a dirigersi, il comandante ricevette l'ordine, dalle autorità italiane, di fare rotta verso il porto di Bari, dove arrivò nella tarda mattinata dell'8 agosto.
Quello che entrò nel porto del capoluogo pugliese aveva più l'aspetto di un vascello fantasma che di una nave adatta a trasportare passeggeri. L'imbarcazione era stipata fino all'inverosimile da un numero impressionante di persone; c'era gente dappertutto, da poppa a prua; sul ponte, nelle stive, nelle cabine dei marinai, aggrappate persino agli alberi e ai pennoni; erano tutti senza bagagli, magrissimi, stremati, sofferenti, digiuni; molti presentavano i sintomi della disidratazione e i volti devastati dalla povertà.
Nell'afosa e torrida giornata estiva i Baresi assistettero ad uno spettacolo allucinante: appena la nave entrò nel porto, molti passeggeri si lanciarono in mare, desiderosi di arrivare sulla terraferma prima degli altri, gridando "Italia, Italia" e mimando con le dita il segno della vittoria.

Erano quasi tutti a torso nudo, molti rimasti solo in mutande, tutti però si mostravano euforici perchè coltivavano la speranza di aver conquistato un futuro più libero e migliore.
Ad aspettarli però non c'era nessuno a distribuire loro tavolette di cioccolato, anzi.
Le autorità locali, con in testa il sindaco Enrico Dalfino, intenzionati ad affrontare "l'invasione" con la protezione civile, invece che con le forze dell'ordine, erano del parere di allestire una tendopoli nel porto, per approntare i primi soccorsi, ma il Governo e l'allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, erano di opinione opposta e ordinarono - sul modello della retata degli ebrei di Montmartre e la loro carcerazione nel Velodromo d'Inverno di Parigi (prima di deportarli ad Auschwitz) - di ammassare e rinchiudere i migranti nel vecchio stadio barese di calcio Della Vittoria, in attesa di trovare un modo per liberarsene e rispedirli nel loro paese, mettendo così in evidenza tutta la nostra incapacità, disorganizzazione e mancanza di preparazione nel saper gestire un evento straordinario di emergenza.

Dentro lo stadio, privo di ogni confort e con insufficienti servizi igienici, sparì la solidarietà che si era manifestata sulla nave e si scatenò la guerra tra poveri: le bande criminali, che erano appena usciti dalle patrie galere, appena aperte dopo la caduta della dittatura di Hoxa, presero possesso del territorio appropriandosi del cibo, che veniva loro lanciato dall'alto delle gru, affamando così i connazionali. La perdita della dignità umana e la prevaricazione del forte sui deboli, esattamente ciò che succede sempre all'uomo, quando è rinchiuso in uno spazio angusto insieme ai suoi simili.
Di quei disperati solo qualche migliaio (esattamente 1500) riuscirono a rimanere in Italia, molti dei quali andarono a rinforzare la malavita italiana, gettando una luce negativa sull'intero popolo albanese, gli altri con l'inganno furono rispediti in Albania con aerei di Stato, facendo loro credere che stavano per essere trasportati a Roma.
Il primo respingimento di massa della storia dell'immigrazione in Italia.

Presentato fuori concorso alla 69ª Mostra Internazionale di Venezia, nell'ambito degli eventi speciali, il docufilm di Daniele Vicari - che pochissimi andranno a vedere perché ormai la cultura cinematografica italiana si limita ai film d'azione computerizzati e fracassoni o agli horror splatter e sanguinolenti - nasce dall'esigenza del regista di aiutarci a ricordare, con grande maturità narrativa, una brutta pagina della nostra storia recente.
Per narrarci ciò che avvenne quell'ormai lontano 8 agosto, l'autore, che aggiunge un nuovo tassello al suo cinema di impegno sociale, ha raccolto decine e decine di video, mai utilizzati e finiti ormai negli archivi di alcune televisioni locali e nazionali, e nell'archivio di Stato albanese. Un lavoro certosino da cui scaturisce un resoconto dettagliatissimo e coinvolgente di quei drammatici e tragici avvenimenti, di cui sono testimoni gli stessi che li hanno vissuti sulla loro pelle, che ce li raccontano con grande lucidità e puntiglio, come fossero accaduti ieri e non venti anni fa.

Sono 17 in tutto le persone coinvolte, direttamente o indirettamente, in quei fatti, di cui Vicari raccoglie le testimonianze alterandoli al vasto materiale d'archivio.
C'è Kledi Kadiu, il ballerino divenuto famoso in televisione, all'epoca non ancora maggiorenne, che, rimpatriato, ritornò in Italia due anni dopo per studiare danza a Mantova; Kledi immagina l'Italia come un paese di fratellanza e divertimento, come l'aveva ammirata in tv e ricorda così quelle terribili ore: "sentivo il bisogno di bere e così bevvi dell'acqua di mare, ma fu a quel punto che la sete aumentò ancora di più e credetti di impazzire".
C'é Agron Sula, rimpatriato e poi ritornato in Italia, attualmente apprezzato pizzaiolo nella Bari vecchia.
C'è Eva Karafili, all'epoca neo laureata in economia, che oggi ha trovato lavoro come traduttrice e badante in Puglia, la quale, appena salita insieme al marito, a bordo del Vlora ha ritrovato il fratello.
C'è Robert Budina, allora studente di belle arti e oggi apprezzato regista in patria.

E poi ci sono le testimonianze di chi quei fatti li ha vissuti indirettamente, come Luca Turri, fotografo barese che immortalò lo sbarco dei disperati del Vlora. Un suo fotogramma fece il giro del mondo, suscitando indignazione e sgomento un po' dappertutto.
O come Vito Leccese, giovane assessore alla sanità, che affiancò il sindaco nell'opera di coordinamento degli aiuti, ottenendo i rimproveri livorosi di Cossiga a causa del parere contrario della giunta comunale barese verso le decisioni del Governo.
E infine c'è l'ispettore di polizia Nicola Montano, svegliato in piena notte e inviato ad attendere l'arrivo della nave, che ricorda: "rimasi allibito quando la nave si materializzò all'ingresso del porto, era un formicaio brulicante di corpi e facevano tutti il segno della vittoria con le dita, tanto che io mi chiedevo: "chissà cosa credono di aver vinto?" forse il biglietto di ritorno gratis".

Si avverte una sorta di fil rouge che lega "Diaz, il precedente lavoro del regista, con "La nave dolce", soprattutto dal punto di vista emotivo, in quanto entrambi permettono di rileggere, passo dopo passo, avvenimenti della nostra storia recente, che la cattiva coscienza collettiva cerca di rimuovere o minimizzare.
In entrambi Vicari riesce a trasmettere i diversi sentimenti provati dai protagonisti nel corso delle loro tragiche esperienze. Qui, come in "Diaz" si passa dall'euforia iniziale alla progressiva paura, fino alla perdita di ogni speranza e alla rassegnazione finale, dipinta sui volti di coloro che lì furono massacrati e qui vissero il dramma del rimpatrio forzato.
Il tutto ammorbidito dallo sguardo dolce di chi cerca di smorzare gli aspetti più drammatici di una dolorosa ricostruzione; il che tuttavia non sminuisce il valore di un lavoro che cerca di far rimanere in primo piano la profonda umanità delle singole testimonianze, come cerca di far rimanere in primo piano gli sguardi di coloro che sono stati testimoni di quei fatti.

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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 13/11/2012 10.35.00

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