Recensione l'angelo ubriaco regia di Akira Kurosawa Giappone 1948
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Recensione l'angelo ubriaco (1948)

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locandina del film L'ANGELO UBRIACO

Immagine tratta dal film L'ANGELO UBRIACO

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Immagine tratta dal film L'ANGELO UBRIACO
 

Akira Kurosawa non è solo il regista de "I sette samurai", "Rashomon", "Vivere", "Dersu Uzala"; la sua filmografia è piena di film "minori" che minori non lo sono per niente. Ce n'è soprattutto uno, "L'angelo ubriaco", che nonostante abbia più di 60 anni (è uscito nel 1948) è di un'attualità sconcertante, molto coinvolgente e di grande bellezza visiva.

Siamo nel Giappone che si sta rialzando dal disastro della Seconda Guerra Mondiale e Kurosawa, come i suoi colleghi italiani neorealisti, si fa poche illusioni sulla piega che ha preso la società civile sopravvissuta al nazionalismo.
Il suo sguardo coraggioso va a frugare dove in genere non si andava: nei bassifondi delle periferie (si pensi al contemporaneo cinema hollywoodiano, che evitava appositamente le situazioni degradate), dove domina l'incuria, la rassegnazione e l'indifferenza.
La società civile sembra non poter fare a meno di qualcuno che la opprima e la comandi. Passati i militaristi con la loro esaltazione ideale, ecco arrivare la mafia "Yakuza" che taglieggia i commercianti e impone con la paura la sua legge.

La grande dote di Kurosawa è sempre stata quella di avere tradotto astratte situazioni sociali in umanissime e toccanti storie. Qui abbiamo a che fare con Matsunaga, un giovane e rampante boss, sfolgorante di bellezza e pienezza di vita (è la prima interpretazione in assoluto di Toshiro Mifune), che va a farsi curare la ferita ad una mano dal Dottor Sanada, un medico anticonvenzionale, spiccio e diretto.
Durante la visita Sanada si accorge che il giovane boss è ammalato di tubercolosi, una malattia mortale che si può curare solo con grande dedizione e un regime di vita rigido e regolato.

Matsunaga si trova perciò di fronte a un dilemma drammatico. Che fare? Seguire le nuove regole di Sanada, accettare la propria debolezza, rinunciare ai segni del potere (non bere, non fumare, non andare a donne, ammettere la propria malattia) salvando così la propria vita, oppure affermare fino in fondo il suo diritto a essere il capo e il dominatore, dimenticando di avere i giorni contati? Si tratta di una scelta umana cruciale che letteralmente butta a terra il "duro" Matsunaga, il quale purtroppo non ha la forza di scegliere la strada indicata da Sanada e soccombe alla logica del "nome" e dell'onore.

La vicenda di Matsunaga offre a Kurosawa l'occasione di criticare la mentalità tipicamente giapponese di adesione cieca a codici di onore prestabiliti e di assoluta fedeltà ai propri superiori.
Intanto avvicina questo sistema etico-sociale al mondo della malavita e della mafia, ad un mondo dove domina la violenza e la paura. Gli toglie poi qualunque parvenza di nobiltà mostrando come tutto ruoti intorno all'opportunismo, ai soldi e al potere.
Basta un niente e da un giorno all'altro ci si ritrova dalle stelle alle stalle.

Sacrificare la propria vita per un codice d'onore appare così come qualcosa di inutile, senza senso e soprattutto come qualcosa di puramente distruttivo, che non ha niente a che vedere con i sentimenti di elevatezza o superiorità umana, né tantomeno di nobiltà o valore.
E pensare che questo sistema era quello usato al tempo del Giappone dei samurai ed è quello che ha guidato il Giappone nell'assurda avventura della Seconda Guerra Mondiale.
Si capisce bene quindi il giudizio tranciante di Sanada: "I Giapponesi sanno morire solo per delle idiozie"; un giudizio molto forte che riflette, detto così, senz'altro il pensiero di Kurosawa.

La vicenda del Dottor Sanada serve invece a disegnare una figura di "eroe" molto particolare. L'eroe nei film di Kurosawa non è quello più forte e più violento (tipico della filmografia americana da John Ford in poi), amato e temuto allo stesso tempo.
La violenza e la forza sono forze viste da Kurosawa come espressioni fin troppo spontanee e "facili", quelle più accettate e diffuse. Il vero eroismo consiste invece nell'affermare la natura razionale dell'essere umano, andare al di là dei propri istinti, sfidare tutto e tutti in nome di ideali collettivi che tutelino i più deboli e indifesi (si veda soprattutto "I sette samurai" e "Sanjuro").
La società tende però a non accettare molto volentieri questo tipo di persone decisamente scomode e per questo gli eroi di Kurosawa (come quelli di Ford) si trovano a vivere solitari, ai margini della vita civile.

Vivere ai margini, questo è infatti l'amaro destino del dottor Sanada. Come può avere seguito e successo una persona diretta, quasi brutale, che si cura così poco dell'estetica e che si beve addirittura l'alcool di ordinanza? Non lo aiuta nemmeno il carattere estremamente schietto e sincero, che non sa cos'è l'ipocrisia e la falsità.
Sanada è un personaggio così vivo e affascinante proprio perché è imperfetto. E' un tipo duro, arrogante, scostante, eppure nonostante i tanti difetti dedica tutta la sua vita alla cura, non solo fisica, dell'umanità che gli sta intorno. Si arrabbia, diventa irascibile se qualcuno si lascia andare al "male", alla "malattia".

Sente moltissimo la sua professione, che è qualcosa di molto di più che una semplice professione per guadagnarsi il pane, è una specie di missione etica.
Il suo motto è infatti: "la ragione è il miglior medicamento".
Del resto si fa poche illusioni sulle persone: "un animale, ecco quello è; un'illusione trasformarlo in essere umano".
La sua esistenza è decisamente amara e solitaria: "senza spirito non sopporterei questa vita; tutto è così disgustoso che mi viene il vomito".
Sanada è interpretato in maniera sublime da uno stratosferico Takashi Shimura, forse la sua migliore interpretazione di sempre.

A Kurosawa non basta però la recitazione degli attori e lo svolgersi ordinario e regolare dei fatti narrati, vuole che tutto parli, tutto esprima, ed ecco che per dare più spessore alla storia ricorre alla grande esperienza espressiva ereditata dal cinema muto.

Prima di tutto si ricorre a tutta una precisa simbologia che corre parallela alla storia.
Il quartiere degradato, il prosperare del vizio e del malaffare nell'indifferenza e nell'accettazione generale è simboleggiato da un maleodorante e putrescente acquitrino sempre presente con la sua sozzura dall'inizio alla fine del film.
Simboleggia proprio l'inerzia al male, l'abitudine che ci fa la gente, la quale addirittura lo utilizza come discarica, aumentando così il malessere e la fonte di malattie fisiche e morali.

Un fiore gettato da Matsunaga nell'acquitrino aggiunge un significato ben preciso alla scelta di vita che ha fatto. C'è poi la notazione espressiva dei volti, i primi piani, la maschera inquietante in cui si trasforma il volto di Matsunaga alla fine del film, tipica dei film espressionisti tedeschi.
In una scena onirica molto suggestiva Matsunaga vede il suo doppio che esce da una bara e lo insegue fino ad acchiapparlo.

La feroce lotta finale fra Matsunaga e il boss rivale Okada è trattata senza fronzoli estetici; anzi i due personaggi si combattono rotolandosi in mezzo a della vernice caduta per terra, dando alla scena un valore grottesco e disumano, come nei film di Erich Von Stroheim.

Insomma, "L'angelo ubriaco" è un film che fa dall'espressione piena e potente dei sentimenti umani la sua forza.
I due protagonisti, nonostante il rapporto burrascoso che li unisce, in realtà sono molto vicini per il modo irruento e intenso con cui affrontano la vita. Sono persone dirette, per questo sotto sotto si apprezzano. Solo che uno ha scelto la strada del darsi per gli altri e l'altro quella di ricevere dagli altri. Uno non si aspetta niente dalla vita, è amareggiato e preparato alle delusioni e alle sconfitte; l'altro invece si aspetta tutto, vuole tutto e non regge alla sconfitta, non è abituato a perdere.

Kurosawa è crudele con il personaggio di Matsunaga, ritratto senza pietà nella sua decadenza e nella sua caduta.
Nonostante la connotazione etica negativa dei suoi atti e della sua fine, non si può fare a meno di sentire fino in fondo la grande umanità, la profonda sofferenza espressa in maniera così mirabile. Viene proprio da rammaricarsi e provare pietà per il destino di tanta giovinezza, di tanta spavalderia, di tanta forza interiore sprecata in questa maniera.

E' la triste considerazione finale di Sanada, che in cuor suo, tutto sommato, ammirava e voleva molto bene a Matsunaga, quasi come il padre con il figlio ribelle.
C'è tanta amarezza nel finale del film ma Sanada vuole che si trasformi in speranza, in fiducia negli ideali di ragione e solidarietà, gli unici che riescano a salvare e non a distruggere vite umane.

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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 15/06/2010 15.13.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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