Recensione la passione di giovanna d'arco regia di Carl Theodor Dreyer Francia 1928
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Recensione la passione di giovanna d'arco (1928)

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locandina del film LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO

Immagine tratta dal film LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO

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Immagine tratta dal film LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO

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"Le ho detto e glielo ripeto ancora una volta. Io ho intenzione di girare un film che si potrà citare come un film modello"

Se i dirigenti della Société Général des Films avessero saputo di che pasta fosse fatto il 38enne regista danese Carl Theodor Dreyer, non gli avrebbero mai affidato nel 1927 la direzione del film su Giovanna d'Arco. La loro ambizione era quella di fare concorrenza a Hollywood, producendo kolossal storici; oltre al film su Giovanna d'Arco, ne avevano finanziato uno su Napoleone affidato al famoso regista francese Abel Gance. Gance creò un'opera monumentale della durata di diverse ore e che veniva proiettata su tre schermi in contemporanea: "troppo" kolossal per avere successo.
Dreyer invece, nonostante l'astronomica cifra di 9 milioni di franchi spesi per le riprese, presentò nell'ottobre del 1928 un film scarno, concentrato, poverissimo di azione, fatto in pratica solo di primi piani. Il pubblico rimase quasi sconcertato dall'insolito stile e ne decretò l'insuccesso commerciale. Il regista danese aveva però raggiunto il suo scopo: era riuscito a creare un'opera che sarebbe servita come punto di riferimento per il futuro, e che rappresenta forse il limite estremo a cui è giunto il cinema per esprimere i sentimenti interiori senza usare le parole.

"La sua voce non è la vostra voce"

Non tutti conoscono la storia di Giovanna d'Arco: una donna eccezionale, capace di risollevare le sorti della Francia agli inizi del 1400, quando sembrava ormai in mano agli inglesi. Era una semplice contadina analfabeta di 19 anni che diceva di sentire "voci"; secondo lei si trattava dell'Arcangelo Michele che le aveva imposto una missione: avrebbe dovuto vestirsi da uomo, condurre il legittimo re di Francia sul trono di Reims e scacciare definitivamente gli inglesi.
Testarda, cocciuta, dotata di carisma – anche se debole donna adolescente – era riuscita a convincere armigeri e uomini di stato a provare; la sua forza interiore riuscì a trascinare un esercito sfiduciato alla vittoria e a far incoronare il suo re. A questo punto era diventata un personaggio "scomodo": che se ne fa un re di una persona del popolo, per giunta donna e tra l'altro incontrollabile? La lascia al suo destino e, ingrato, non fa niente per salvarla una volta che gli inglesi l'hanno catturata. La Chiesa poi vede come il fumo negli occhi questa donna che osa sfidare il proprio ruolo di legittimo intermediario con il divino. Una del genere va bruciata come strega.

"Non avrò tregua fino a quando non avrò dato a ogni singolo dettaglio l'impronta che desidero"

L'intento di Dreyer era di far rivivere questa figura, fuori dagli schemi tradizionali e cercare di essere il più possibile fedele alla realtà storica. Per la sceneggiatura decise di basarsi esclusivamente sugli atti scritti del processo inquisitorio di condanna, l'unica testimonianza diretta che abbiamo di lei; la scommessa era quella di dare vita e intensità emotiva a delle semplici domande con risposte, e la soluzione la trovò nello stile teatrale classico.
Il processo, che durò diversi mesi, fu ridotto ad una sola giornata e fu ambientato esclusivamente nel nudo castello di Rouen (ricostruito in studio), scegliendo solo le parti attinenti con la personalità di Giovanna. Dreyer riesumò quindi per l'occasione le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, con l'aggiunta dell'indipendenza del punto di vista tipica dell'arte cinematografica; per questo le figure in scena furono scandagliate da ogni lato (in primissimo piano, in verticale, di traverso) sia esteriore che soprattutto interiore. Ne venne fuori una delle più bizzarre fusioni di cinema e teatro.
L'esigenza di realismo lo portò a scegliere attori non famosi, ma espressivi. Su tutti, Renée Falconetti nel ruolo di Giovanna e Eugène Sylvain in quello di Cauchon (l'anziano capo dei giudici, acerrimo nemico di Giovanna), che furono vittime della mania perfezionista di Dreyer, che provava e riprovava senza tregua; pretendeva che vivessero i personaggi, non che li recitassero. La Falconetti restò addirittura zoppa per un po' dopo una scena di tortura troppo "realistica".

"Ha importanza questo per il vostro processo?"

Lo scopo dei sapienti giudici dell'Inquisizione è quello di umiliare e annichilire la personalità indipendente e pericolosa di Giovanna e la tattica che usano è quella di farla apparire una povera ignorante rimasta preda di visioni dettate dal maligno; la umiliano in continuazione facendola sentire una pezzente di fronte a gente più saggia di lei. I giudici le fanno domande su particolari insignificanti delle sue esperienze con il divino: come era vestito l'Arcangelo Michele, se aveva le ali, la corona o addirittura se era nudo. Altre volte con abili domande trabocchetto cercano di portarla su difficili questioni teologiche, per farla apparire come eretica.
Le risposte di Giovanna lasciano interdetti i giudici. Non dice né si, né no. Risponde in maniera sentimentale ed elusiva. La sua fede è fatta di sentimenti, non di dogmi. Alle certezze dei giudici lei oppone la sua dolorosa ricerca, riuscendo a far capire che la sua forza è tutta interiore e sentimentale. Il fuoco di fila delle domande però colpisce l'intimo di Giovanna, molto facile alla commozione; lei avverte soprattutto la cattiveria e l'odio intorno a sé e non può fare a meno di mostrare in maniera espressiva la sua grande sofferenza. Eppure non prova rancore: in una scena molto significativa vorrebbe stringere la mano di Cauchon, il quale la ritira sdegnosamente.
Decisi a piegare questa donna tenace, i giudici ricorrono così alla tortura fisica e soprattutto psicologica. Giovanna potrà avere soddisfazione solo se rinuncerà agli abiti maschili, "questi abiti indecenti, abominevoli agli occhi di Dio", secondo Cauchon. Lei, finché può, non rinuncia ai suoi principi e rimane coerente con se stessa. Poi ad un certo punto, dileggiata, ingannata da falsi amici, cede e abiura, rinnegando tutto quello che aveva fatto fino ad allora.

" E la grande vittoria?" " Il mio martirio"
" E la tua liberazione?" " La morte"

Senza i suoi abiti maschili, i capelli tagliati crudelmente a zero, privata di tutti i segni della passata indipendenza interiore, alla fine Giovanna capisce il madornale errore commesso: ha tradito la sua "missione", ha tradito la sua fede, ha tradito se stessa. L'unica maniera per ottenere la "vittoria" e la "liberazione" dalla prigionia, promesse dalle sue voci, è quella di mostrare a tutti la forza delle proprie idee, accettando la morte sul rogo.
Ed è così che lo spettacolo drammatico di una umile 19enne che brucia gridando ad alta voce il nome di Gesù, riesce a smuovere gli animi. Con l'estremo sacrificio riesce a nobilitare e a tramandare i propri principi. I poteri costituiti si trovano costretti a rivelare il loro vero volto, fatto di violenza e sopraffazione, per poter schiacciare la ribellione della gente.

"Non vi è nulla al mondo che possa essere paragonato a un viso umano. E' una terra che non ci si stanca mai di esplorare. Una terra di particolare bellezza sia che possa essere severa o dolce."

L'esigenza di realismo sentimentale, l'intenzione di far rivivere allo spettatore il doloroso conflitto interiore di Giovanna e l'ipocrisia dei giudici, fa sì che venga privilegiato l'uso del primo e primissimo piano; nel film se ne contano quasi 1500. Per accentuare il realismo, Dreyer ha evitato di far truccare gli attori. Le facce ci appaiono dal vero, con tutti i loro difetti o imperfezioni: quelle dei giudici sono rugose, dure, altere; gli occhi stretti e volpini; le espressioni passano dall'alterigia allo sdegno, dal sorriso ipocrita all'ira. Solo alla fine si vede un misto di pietà e commiserazione sulla faccia di Cauchon. Di fronte alle facce grinzose e nette dei giudici sta la faccia liscia e soffusa di Giovanna, su cui campeggiano due immensi occhi espressivi; mai personaggio cinematografico è stato reso con tale intensità e dolore. Non si scompone nemmeno quando una mosca le si posa sul volto - Dreyer si è guardato bene dal tagliare la relativa scena.
Le poche carrellate hanno invece la funzione di farci vedere la corte al completo: ripresi o di spalle o dal basso in alto, incombono sulla povera Giovanna. Con questa monotonia stilistica il film si regge sul cambio frequente di punto di vista della cinepresa; è un continuo palleggiare di primi piani ognuno visto da un lato diverso. Nel finale si sperimentano visuali insolite a volo d'uccello sui soldati, o dal basso verso i soffitti delle stanze. Le scenografie bianche e nude, la luce accecante rendono il tutto quasi surreale, evidenziando con maggiore nettezza le figure e i loro sentimenti.
La scena più bella e drammatica è senz'altro quella del rogo. Il ritmo è estremamente lento, proprio per prolungare e intensificare la rappresentazione dell'agonia; ci vengono mostrate tutte le fasi dell'avanzamento del fuoco e dell'incredibile sofferenza di Giovanna. Grazie a dissolvenze e ad altri "effetti speciali" sembra di vedere bruciare davvero la Falconetti.

"Forse ho esagerato"

"La Passione di Giovanna d'Arco" è un'opera estrema, quasi di avanguardia.
Dreyer stesso ammise poi di avere esagerato con l'uso esclusivo dei primi piani. Vedere quest'opera in videocassetta o dvd su di uno schermo televisivo la penalizza moltissimo; andrebbe piuttosto vista sullo schermo cinematografico, magari in prima fila. Il continuo giganteggiare dei volti, il bombardamento ininterrotto di sentimenti intensi e dolorosi colpiscono, disorientano e turbano l'animo dello spettatore. Il nostro rapporto normale con le facce degli altri è quello di un metro di distanza; avere per un'ora una faccia dolorante a pochi centimetri dai propri occhi implica molta confidenza e partecipazione; difficile poter reggere un tale stress emotivo anche nella realtà.
Guardare questo film oggi ha lo stesso significato che ha visitare una grande opera d'arte del passato, come un tempio greco: la si guarda per ammirazione intellettuale, non certo per svago.
Certo che qualcosa riesce ancora ad insegnare: anche i più deboli riescono a sconfiggere chi è più forte o più potente; basta restare sempre fedeli ai propri principi ed essere pronti a subirne tutte le conseguenze.

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Recensione a cura di amterme63 - aggiornata al 11/09/2007

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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