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"Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio, un po' come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com'era fatta un'isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com'era una strada verso l'Oriente o attraverso l'Africa. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio, non per costruire una storia oggettiva ma per restituire la freschezza del racconto e l'imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell'immaginazione e la concretezza della paure che accompagnano un viaggio"
(Ascanio Celestini)
Sono infinite le percezioni morali e culturali di questo film. Un esordio, tratto dal libro omonimo di Celestini intitolato con eloquenza "La pecora nera - il manicomio elettrico", che riflette una concezione di cinema neutrale, a metà strada tra Pasolini e la staticità autunnale del cinema dell'Est europeo.
Lontano. Vicino. Dipende tutto da noi. Lo spettatore coglie questo isolamento, ma è egli stesso "lontano e vicino". Verrebbe voglia di citare il teatro dell'assurdo di Beckett, che nella sua assurdità ci costringe a ridere senza che esista una ragione.
Ascanio è Nicola e attraversa 35 anni di manicomio costringendo se stesso a rinchiudersi nella sua "consapevole prigionia".
Sceneggiato da Ugo Chiti e Wilma Abate, il film diventa un microcosmo surreale (per non dire surrealista) dove tutto è attraversato dalle parole del protagonista, onnipresente, quasi a indicarci la nostra malafede, perché non ci troviamo di fronte al tanto temuto (o atteso) film-verità.
L'alienazione è ovunque
Il mezzo cinematografico è il più disonesto e "seducente" per la capacità di attraversare i rapporti umani. Lo spettatore si trova (suo malgrado? Forse) a conoscere direttamente testimoni o personaggi a cui nella vita quotidiana non darebbe alcun risalto.
"La pecora nera" è un film che infonde una certa sensazione di serenità e, contemporaneamente, di disagio. Il simbolo più assurdo e repellente (vedi le pasticche marziane che Nicola inghiotte come se non fossero feci di pecora) diventa una forma aliena di poesia, perché è facile credere (e condividere) l'espressione singolare di un gesto deplorevole da parte di una mente lontana dai nostri parametri abituali.
Nicola nasce in quei "favolosi anni 60" dove le maestre di scuola accettavano favori in cambio della promozione di un bambino difficile (le tanto decantate uova che "puzzano del culo della gallina", portate all'insegnante dalla nonna di Nicola), quando non esisteva ancora la legge Basaglia e dove i mondi ancora si separavano all'insegna di una "segregazione socialmente regressiva".
Nicola che cita indirettamente Ginsberg, segnato dalla stessa esperienza (la madre morta in un manicomio), che si nutre di scarafaggi e si prepara, da bambino, a entrare in quell'oscurità dove tutto e niente scorre, salvo le traiettorie della fantasia.
Si consiglia di seguire le avvertenze e le modalità d'uso: chi si aspetta di vedere passerelle di idioti che reclamano il loro eccentrico "autismo mentale" è pregato di evitare questo film.
L'ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma è un (ennesimo) non-luogo, dove Nicola naviga, da Marziano, confrontandosi con la sua nulla appartenenza.
Discusso per i presunti tempi cinematografici dilatati come un lungo monologo teatrale, nel film prevalgono invece sensazioni che restituiscono un respiro più ampio del palcoscenico, specialmente nella vita di Nicola bambino o nelle sequenze al supermarket.
"La pecora nera" è un film "diverso" che parla di "diversi", rivisto in una prospettiva forse egocentrica (del suo autore) ma anche con un'umile consapevolezza di semplicità. Una semplicità che, al primo impatto, non emerge chiaramente.
L'immaginario di Celestini è lo stesso di un osservatore passivo costretto a procacciarsi uno spazio multiforme dove sovvertire e liberare ogni minima aderenza con un realismo amaro e inviolabile. Lo spettatore prova egli stesso a partecipare, quando si sente sopraffatto dal contesto in cui "la nuda normalità" si sente attratta e respinta dalle geometrie sbilenche e surreali di uno schizofrenico.
Succede con il personaggio di una prostituta che sembra uscita dalle pagine di "La notte brava" (altra forma di alienazione sociale e per queste ragioni condannata ad estinguersi) o con l'amica d'infanzia Marinella, ritrovata per caso in una sorta di Esselunga, costretta a offrire cialde per caffè con uno sguardo sorridente e ammiccante alla generazione contemporanea.
Sono o possono essere la stessa persona? E' possibile trovare differenza tra "chi ti lecca" e chi ti propone un caffè?
Girare con un budget ridotto può essere una privazione, forse per questo Celestini si priva di quel mondo esterno che offre solo qualche vaga ma significativa immagine e che ci ripropone il dubbio costante: cinema, teatro o rappresentazione quotidiana di una realtà celata?
Il manicomio è un condominio di santi
Per tutto il film noi assistiamo alla ripetizione singolare degli eventi. Nicola e il suo stralunato alter ego (uno strepitoso Giorgio Tirabassi) accompagnano una suora dell'istituto a fare le spese nel supermarket, dove Nicola un giorno incontra l'ex bambina che aveva frequentato tanti anni prima. Prima di finire in un manicomio.
I personaggi "esterni" si comportano come se l'irrazionale fosse parte integrante di ognuno di noi: la suora che piange la morte del Papa e sogna Karol Wojtila che scia insieme a lei, Marinella che dispensa sorrisi chiusa in un microcosmo di benessere dove tutto è spaventosamente uguale al giorno prima, il direttore del supermarket che redarguisce da certi comportamenti, e via dicendo.
In questo senso la schizofrenia come rappresentazione univoca di santità ricorda l'anticamera degli spiriti "puri", sopraffatti dalla loro libertà perché letteralmente messi nelle condizioni di non nuocere socialmente agli altri.
Forse la necessità dell'autore di appropriarsi del linguaggio dei "matti" diventa un limite, perché a tratti il film sembra inseguire la mistificazione fiabesca di quello che, nel migliore dei casi, suscita un divertimento scontato in molti di noi. In verità è proprio questa nostra forma di ilarità a reggere le fila di una fobica immunità alla "paura".
La sequenza forse più bella del film, che difende due spazi contrapposti con la necessità di non violarli o liberarli, è quando Marinella si sente (finalmente?) minacciata dalla sete affettiva di Nicola, dal suo bisogno di espandersi "oltre l'incontro, e al di là della conoscenza". Per quanto si celi anche negli "altri" il desiderio di fuga, è come se i codici del linguaggio si estinguessero davanti alle risorse interiori delle nostre ragioni, opposte o complementari che siano.
Le ragioni possono essere le stesse, ma è difficile identificarle. I sogni infantili imparano a disconoscere l'illusione degli incubi.
"La pecora nera" non è un film-verità. Non vediamo matti a piedi nudi calpestare il fango, solo lunatici bambini che divorano scarafaggi come segno d'amore. Non vediamo dissociati obesi lordati dalle loro feci, mentre un infermiere li rimprovera senza affetto. Il manicomio è un muro di cinta, dove tutto è appannato nel suo grigiore, dove vivono i "marziani". Sullo sfondo, una madre morta nel suo letto e un paio di fratelli aguzzini, mostruose devianze di una certa "normalità".
Complessivamente un buon esordio, questo di Celestini. Obiettivamente, un circuito chiuso dove convivono più esperienze (cinema, teatro, letteratura, poesia) senza che nessuna di esse possa ritenersi un "soggetto compiuto".
Si tratta di una lezione forse moderna di "denutrimento dell'immagine", a favore di un linguaggio ricercato nelle spirali possibili della favola morale (sembra a volte di entrare e uscire da un romanzo di E.E. Schmitt), rivolto a chi è ancora in grado di ascoltare.
Oppure dell'immaginario come unico elemento atto a favorire l'ingresso degli "alieni" su questa terra.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 20/10/2010 11.23.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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