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"La rosa purpurea del Cairo" è il tredicesimo film di Woody Allen, il secondo senza Allen attore; il primo fu "Interiors".
Questo film, girato nel 1985, è ambientato negli anni '30 nella periferia del New Jersey. E' un'opera stilistica esemplare ed originale, una brillante formulazione per immagini del significato più segreto che anima il cinema in generale.
La sceneggiatura è un vero e proprio gioiello letterario, frutto di un lavoro di scrematura delle parole e delle immagini-simbolo avvenuto lungo un profondo impegno di riflessione autobiografica.
Il contenuto del film prende in considerazione sia i conflitti di identità che animano nel cinema la relazione tra il personaggio e l'attore che lo interpreta, sia il frequente desiderio del personaggio volto a conoscere lo spettatore che più lo ammira e in lui si identifica.
Il film pur divertendo non è di facile apprendimento: si presta, da un punto di vista critico, ad essere interpretato e vissuto in diversi modi. Ciò è dovuto alla natura stessa del suo argomento, che riguarda essenzialmente il sogno, un oggetto di studio da sempre di non facile comprensione e definizione.
In questo caso il sogno non può fare a meno di sfociare, per la complessità che prende l'analisi di Allen, in altri interessanti temi, tutti molto attuali; questi ruotano intorno al senso che il cinema può assumere rispetto a referenti quali lo spettatore, la critica, il produttore, la stampa e non ultime le scelte soggettive di programmazione che la sala cinematografica attua durante l'anno.
Tra le diverse possibilità di intendere questo film una sembra imporsi per importanza e vastità di collegamenti tematici, ed è quella riguardante il congegno narrativo e l'originalità con cui vengono messe in campo situazioni e tecniche narrative. Queste ultime assumono nel film la capacità di formulare con efficacia importanti aspetti psicologici, in particolare quelli riguardanti ciò che spinge in generale lo spettatore ad andare al cinema.
Con questo lavoro di indubbia qualità Woody Allen sembra volersi interrogare sul potere che il cinema ha, sulla sua forza di coinvolgere lo spettatore e di prolungare nella vita reale la suggestione di cui è portatore; il film ruota difatti intorno agli aspetti più introspettivi del cinema, quelli costituiti dai più gelosi segreti mediatici.
Woody Allen ha l'ardire di volere svelare questi segreti, mettendo in campo ciò che lui stesso ha appreso nel cinema con la sua esperienza.
Il regista americano prende di mira con stile e raffinata cautela il desiderio chiave che compone il cinema, quello che mette in moto nello spettatore e nell'attore i più semplici meccanismi di identificazione e proiezione.
Il racconto si sofferma su Cecilia, una cinefila accanita, spettatrice assidua in un cinema di provincia; la donna vive da anni un matrimonio non proprio felice. Allen analizza il suo desiderio e cerca di farci conoscere il segreto che lo racchiude; lo scompone nelle sue contraddizioni, con delicatezza, lungo una immaginaria articolazione. Lo fa a volte un po' superficialmente, a volte con profonda intelligenza narrativa: ricca di chiavi psicologiche importanti e comprensibili, ma sempre con raffinato pudore.
La genialità di questo film risiede nel fatto che, pur segnato da un'ambizione analitica, non rinuncia mai a divertire il pubblico, non viene meno agli obblighi di spettacolo che il cinema impone; il film non è mai appesantito dalla personale ricerca culturale che anima il regista.
"La rosa purpurea del Cairo" cerca di gettare luce su alcune dinamiche del godimento e della soddisfazione filmica, quelle tipiche che si possono incontrare nelle teorie cinematografiche.
Il regista americano si avvale di alcune chiavi di lettura di origine psicanalitica che tanto successo hanno avuto nell'interpretare la struttura del sogno, ma non disdice qua e là l'uso di tecniche letterarie: la narrazione ha una struttura a cerchio, nel senso che il finale tende a coincidere con l'inizio, seppur alla fine i personaggi e gli attori si ritrovino altri, modificati dalle nuove esperienze vissute.
E' un sogno particolare quello che il regista fa vivere nel film. Esso ha delle logiche che non disdegnano di mostrare aspetti importanti della realtà rappresentandola per quello che effettivamente è, non deformata, lontana perciò da come il sogno vero, quello notturno, la raffigura solitamente.
Il sogno del film non rinuncia a mostrare i principali conflitti che turbano l'attività dell'attore famoso, amante di Cecilia insieme al personaggio che incarna.
Egli è affetto da una crisi di identità, probabilmente dovuta alle difficoltà che incontra nel distaccarsi, nella vita reale, dal suo personaggio; sembra quasi che il sogno di Cecilia si intersechi con un sogno dell'attore.
Il racconto si svolge in una forma di commedia briosa, pur colma dell'atmosfera grigia che la crisi economica degli anni '30 rilasciava nelle città americane. Domina lo spirito di evasione e ne è un esempio l'immaginario archeologico sull'Egitto misterioso e magico che fa da sfondo al film.
Woody Allen con questa opera riesce a suscitare varie emozioni - passioni che coinvolgono attivamente lo spettatore. Quest'ultimo, inteso come soggetto ricercato e apprezzato dal cinema, in quanto oggetto di un investimento immaginifico, reagisce al film sentendosi anche lui protagonista, in azione dentro lo schermo, come accade a Cecilia in una fase del film.
Il titolo "La rosa purpurea del Cairo" si ispira ad una leggenda legata a un famoso faraone. Essa racconta come a seguito di un dipinto di rose fatto eseguire dal faraone per la regina nella stanza della sua tomba, un folto gruppo di rose siano effettivamente fiorite, misteriosamente, nei pressi del sarcofago.
Il film è anche un vero e proprio trattato sul fascino che il cinema esercita nei ceti più popolari; ceti nei confronti dei quali, sembra dire Woody Allen, lo schermo è portatore, grazie all'impressione di realtà che lo caratterizza, di un immaginario-sogno.
Il film con i suoi efficaci strumenti espressivi sembra in grado di cogliere i punti più sensibili dell'animo umano, quelli in relazione con la facoltà di fantasticare. Il cinema, secondo Woody Allen, ben si amalgama con le aspirazioni più remote dello spettatore perché è in grado, con il gioco della finzione e i primi piani degli sguardi, di potenziare le emozioni.
Lo schermo, secondo Woody Allen, crea anche modelli desideranti, progetti e proposte di piaceri immaginifici, emozioni che aprono le porte a quella struttura psichica più tenuta da parte dello spettatore, preconscia, inquieta, in cui possono realizzarsi soddisfazioni solo a lungo accarezzate. Il film perciò non può non richiamare per via associativa altri aspetti storici della memoria dello spettatore, portandolo a un sapere di sé di cui non sospettava la presenza.
Woody Allen sembra muoversi lungo un registro psichico più vicino all'ignoto che alla coscienza; ciò è testimoniato dal tempo paradossale che mette in gioco in questo film, un tempo che sembra dominare il racconto e che è caratterizzato da un sovvertimento delle attese; una dimensione da cui giungono numerosi doni sorpresa: scene spesso mai previste perché l'argomento del film, essendo insolito, impedisce di indovinarne le sequenze successive.
E' un film questo di Woody Allen che si propone per un dialogo più vero con lo spettatore. Il regista americano lascia, infatti, diverse situazioni sceniche e numerosi dialoghi opportunamente irrisolti adombrandoli di rebus: un appello all'intelligenza di chi osserva, contro la pigrizia mentale
Il meccanismo creato dal film sembra voler dare spazio al pensiero del pubblico che appare in grado di aggiungere o togliere significato alla sceneggiatura mettendo in campo, lungo un gioco di proiezioni personali, proprie raffigurazioni psichiche: frutto di un'attività dell'inconscio apertosi durante la proiezione del film.
Con questo film Allen dà la sensazione di voler mostrare, grazie all'efficacia dell'impressione di realtà che il cinema ha in generale, l'articolazione di un sogno frequente, creato dal cinema stesso. Un sogno visto come risorsa di vita, una sorta di forza progettuale che spinge al cinema lo spettatore. Quest'ultimo, finito il film, al risveglio del reale sente, nonostante la delusione che la realtà impone per essere altra, la sensazione che qualcosa di già accaduto può essere rivissuto in modo nuovo. In un presente, in un qui e ora magicamente sempre in vita.
Questo effetto è in realtà il prolungamento della suggestione filmica nella vita vera. Il fascino che il cinema esercita verso i ceti popolari ma anche verso gli artisti e i poeti.
La pellicola ha per oggetto quello che da sempre si suppone stia alla base di ogni influenza mediatica, e precisamente qualcosa che riguarda il desiderio impossibile, il suo oggetto causa. Un desiderio che si annida timido, impregnato di pudori, nella vita stessa dei protagonisti del film.
Con quest'opera il geniale regista americano è riuscito con lode ad attraversare alcune realtà importanti della struttura desiderante cinematografica. L'ha fatto con una concezione della settima arte ancora molto ingenua e sfuocata, quasi avvolta in un mistero impenetrabile.
Un senso del mistero che anziché deprimere la ricerca ha agevolato la creazione di formule interpretative nuove, aperte. Woody Allen ritiene il cinema un oggetto di studio di impossibile decifrazione, ma del quale si vuole e si può dire qualcosa di preciso, di provvisorio, di utile.
Il mistero in questo film è qualcosa che gioca con gli enigmi più difficili della conoscenza senza mai giungere a soluzioni certe, perpetuando però miracolosamente un interesse costante alla teoria cinematografica.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 31/07/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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