Voto Visitatori: | 6,80 / 10 (10 voti) | Grafico | |
Kenji è un giovane giapponese trapiantato in Thailandia. La sua ossessione principale è il suicidio, che ha tentato molte volte e l'impossibilità di vivere in un ambiente che non sia perfettamente pulito e in ordine.
Un giorno lo raggiunge suo fratello dal Giappone, in fuga per una storia di yakuza. Nel frattempo lui conosce una ragazza, Nid la quale, mentre cerca di impedirgli l'ennesimo tentativo di suicidio, finisce travolta da un'auto.
Le cose a casa sono precipitate irreversibilmente e Kenji non trova niente di meglio da fare che andare a vivere a casa della sorella di Nid, Noi.
"Last life in the universe" è un tipo di vita solitario. In mezzo a gente che non parla la sua lingua, Kenji passa attraverso lo spazio con uno straccio bagnato in mano, tentando nel frattempo a più riprese di suicidarsi. Il progetto che maggiormente lo impegna, il suicidio per l'appunto, viene costantemente interrotto da campanelli, sveglie e altri oggetti che emettono suoni stridenti.
Suo fratello gli invade lo spazio, spargendo cenere con disinvoltura in tutto l'appartamento, e provocando una sparatoria che sporcherà indelebilmente il tutto di sangue. In questa situazione appare ovvio che Kenji, dopo aver pulito tutta la casa dal sangue, esca di casa e tenti di buttarsi giù da un ponte, ma Nid, una ragazza con cui non ha mai parlato, ma che ha notato nella biblioteca in cui lui lavora, glielo impedirà a costo della sua stessa vita.
Per non dover tornare alla sua casa dove il cattivo odore gli crea finalmente un problema che sia di natura reale, Kenji va a vivere a casa di Noi, sorella della sfortunata ragazza che lo aveva salvato momentaneamente dalle sue ossessioni. La casa di Noi è sporca e caotica e Kenji trova la sua consueta tranquillità pulendo qua e là.
Presentato nella sezione Controcorrente della 60° Mostra del Cinema di Venezia, questo "Last life in the universe" rappresenta senz'altro un punto molto alto nella cinematografia del regista thailandese Pen-Ek Ratanaruang.
Il personaggio di Kenji, un Tadanobu Asano giustamente premiato per l'interpretazione, è una specie di alieno che ha bisogno di un ambiente perfetto e che non sente alcun desiderio di comunicare col prossimo.
La sua reale essenza è il mancato suicidio che lo rappresenta come fallimentare nell'unico progetto realmente perseguito con tenacia. L'ambiente in cui si muove è costruito con rigore nella migliore rappresentazione dell'esilio volontario che si possa immaginare, Kenji vive dentro se stesso e non sente mai il suo corpo, le allusioni alle funzioni di natura fisiologica che Noi lascia cadere qua e là lo lasciano completamente indifferente.
Unico giapponese allergico al pesce ha un patologico bisogno di un universo pulito, che gli complica irreversibilmente la vita, ma nel contempo gliela salva nel finale che più poetico non si potrebbe.
La regia straordinaria rende con grande maestria l'elemento ironico dietro l'intero racconto. Pen-Ek Ratanaruang crea un'alchimia che rappresenta il massimo punto di incontro tra la grandissima capacità di narrazione di matrice asiatica, i cui canoni estetici impediscono quasi sempre le rappresentazioni frenetiche, e l'elemento surrealista che regala momenti magicamente comici i quali da soli alleggeriscono il peso di contenuti un po' troppo personali per essere del tutto fruibili.
Non manca la strizzatina d'occhio al cinema di yakuza, col cameo dell'imperturbabile Miike Takashi, re indiscusso dell'ultimo cinema yakuza a basso costo, che informa l'hostess all'aereoporto del suo progetto per la giornata: "Vado ad uccidere un tipo e torno indietro."
Le luci e la fotografia completano un quadro già di per sé perfetto per equilibri e per sensibilità artistica, del resto la cifra stilistica del regista è ormai palese anche ad un occasionale spettatore, che di fronte ad una così grossa capacità alchemica perdona sempre anche le piccole prolissità di un racconto che rimane comunque sempre avvincente.
Se la regia segue un ritmo tutto interiore, con uno stile vagamente ispirato a quello di Kurosawa Kiyoshi, è nei minuti e quasi impercettibili spostamenti sull'asse della macchina che si nota una tendenza all'utilizzo di un linguaggio non codificato, suggerendo sempre per indizi i quali, lasciati semplicemente cadere in giro, non appesantiscono mai la narrazione.
Nel contempo l'audio saturo di suoni discreti o addirittura in alcuni punti silente, invade spazi e luoghi senza una vera sottolineatura, dipingendo una Thailandia decadente e spersonalizzata, un paese sottilmente violento in contrasto evidente col vecchio urbanismo rurale.
E poi il suono acuto dei telefoni e quello stridente dei campanelli di casa, segnali del mancato contatto tra i protagonisti, rendono irritante ogni tentativo di intrusione in uno spazio altro, che qua diviene isola dell'alienazione e rifugio di chi rifiuta semplicemente il dialogo al di fuori dei propri personalissimi canoni.
Tutto questo e anche più della somma di quello che si vede è il risultato finale di questo accuratissimo gioiello di narrazione, che finalmente recuperato all'oblio cui era stato condannato dalla distribuzione italiana, ci viene offerto in dvd a parziale recupero del torto immotivato che ne aveva segnato la sorte.
Commenta la recensione di LAST LIFE IN THE UNIVERSE sul forum
Condividi recensione su Facebook
Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 13/01/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
Ordine elenco: Data Media voti Commenti Alfabetico
in sala
archivio