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Il titolo originale del film sarebbe "La donna segata in due", come emerge dal facile simbolismo della scena finale, in cui la ragazza protagonista, dopo aver perso amante e marito, si riduce in solitudine, con un vecchio zio, sezionata in una scatola come fenomeno da circo. Dove la "dicotomìa", qui propriamente detta, starebbe nel destino incerto della giovane donna, contesa tra due "amori", o meglio tra due scelte esistenziali: quella precipuamente sentimentale, e quella della stabilità, economica e famigliare.
Bisticcio, peraltro, mal posto all'origine, non essendo affatto credibili né il vecchio drudo come vessillifero d'amore, né tanto meno il giovane marito psicolabile come punto di appoggio stabilizzante.
Come poi da una vicenda così mal impostata si approdi al titolo italiano di "L'innocenza del peccato" è davvero difficile capire; se non per l'intenzione pretestuosa di attirare pubblico con un titolo pruriginoso.
E' difficile mettere ordine nei pensieri confusi di uno Chabrol tanto invecchiato da perdersi nei meandri di quello che fu un suo vecchio talento, l'analisi e l'introspezione psicologica, unita al brivido del noir; potrebbe azzardarsi che è in effetti vero che la donna oscilli tendenzialmente tra la tentazione dell'amore assoluto e l'abbandono alle emozioni ed un sano calcolo "contadino", pragmatico ed opportunista, che la porta ad accoccolarsi al modesto tepore della protezione e della sicurezza. E' un po' la storia di tutte, come peraltro tramandato nella grande letteratura, da "Madame Bovary" a "Lady Chatterley".
In chiave simbolica, poi, è la stessa vicenda che porta le giovani donne a distinguere l'amore giovane, romantico e totalizzante dell'adolescenza dalla forte rassicurazione emotiva fornita dalla figura del padre, quell'Edipo incomprimibile che le accompagna per tutta la vita, e non sempre "armoniosamente".
Il coinvolgimento emozionale e la passione scatenano i sensi, spingendo alla sessualità e alla fecondazione; mentre una forza più calma, costante e controllata (l'appoggio paterno), proteggerà continuativamente i pargoli fino all'età adulta.
L'uomo saggio conosce bene queste regole e, se dotato di fortunato equilibrio, si rassegna col tempo a cambiare ruolo, vestendo i panni dell'amoroso tutore, invece di quelli del focoso riproduttore.
Non tutti gli uomini, però, sanno conservare questo saggezza in età matura. La perdita progressiva delle loro facoltà virili e la paura dell'invecchiamento li può illudere di essere ancora piacevoli ed accattivanti come nell'età giovane.
La qual cosa, se condita da doverosa autoironia, o sofferta con dolorosa coscienza come in "Lolita" di Nabokov, può legittimarsi sul piano umano ed artistico.
Dove invece una tarda libido senile e un malinteso senso di una propria residua piacevolezza, portino ad inscenare vicende come quella del film, in cui l'anziano scrittore si presume ancora arbitro della vita di una donna giovane ed avvenente, i conti non tornano più. E che la stessa giovane donna bruci d'amore per l'anziano scrittore (che vive tra l'altro all'ombra rassicurante di un caldo rapporto coniugale), e nel contempo faccia però programmi matrimoniali "stabilizzanti" con un giovane psicotico, finisce per sembrare del tutto incredibile.
Perché dunque raccontare una vicenda del genere?
Potrebbe azzardarsi l'ipotesi di una perdita di lucidità senile; di chi si trovi, all'ultima stagione, senza la capacità di adeguarsi, o quanto meno di rassegnarsi. Anche il fatto artistico è, in ultima analisi, un "parto", e non tutte le età sono buone per riprodursi.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 21/04/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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