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Ad Inishmore, inospitale isola ad ovest dell'Irlanda nell'arcipelago delle Aran, la lotta dell'uomo contro le avversità della natura per gli abitanti dell'isola rappresenta la quotidianità, e la principale fonte di sostentamento è il mare, un elemento della natura che in quel luogo, soggetto a ripetute tempeste, incute ancora timore.
E' in questo posto che nel lontano 1934 un temerario regista americano di origini irlandesi decide di girare un film-documentario sulla vita dei pescatori che lo popolano; prende vita così "L'uomo di Aran".
Robert Joseph Flaherty nasce nel febbraio del 1884 ad Iron Mountain in Michigan, le sue opere, grazie all'espressività del documentario, influirono in modo determinante sullo sviluppo del cinema e tutte le convenzioni stabilite dai processi produttivi dell'epoca furono stravolte.
Nella sua carriera il regista basò tutti i suoi lavori su un tema unico: la capacità di resistenza dell'essere umano di fronte alla furia degli elementi propri della natura, e per questo scelse di ambientare prevalentemente i suoi film tra le popolazioni che vivevano in condizioni estreme ("Nanouk", intenso quadro elegiaco sulla vita degli eschimesi ne è un esempio). L'intensità con la quale il regista descriveva il rapporto tra le due forze in campo (l'uomo e la natura) era tale da conferire ai suoi lavori una profonda liricità; quello che maggiormente affascinava Flaherty era la forza della natura, non come forza fine a se stessa, ma come elemento di contrasto alle esigenze dell'uomo, come l'aridità e la scarsità della terra coltivabile o il mare in tempesta come ostacolo per la pesca.
Le enormi difficoltà alle quali è andato incontro il regista per girare "Man of Aran" si evincono sin dai primi fotogrammi: le insidie delle scogliere quando il mare è in burrasca lasciano poco spazio all'improvvisazione; il regista studia tutto nei minimi particolari e prende tutte le precauzioni che la situazione richiede. D'altra parte i mezzi a sua disposizione sono abbastanza rudimentali: basti pensare che per usufruire dell'energia elettrica è costretto ad installare, in un momentaneo laboratorio, un vecchio generatore a petrolio, e che soltanto la moglie ed un assistente lo accompagnano nella realizzazione del film.
L'integrazione con la piccola comunità di abitanti dell'isola è lunga ma necessaria: occorrono diversi mesi al regista per scegliere tra i pescatori quella che sul set sarà la famiglia dell'uomo di Aran (padre, madre e figlio). La scelta sarà obbligata; nessuna delle poche famiglie "reali" che abitavano l'isola aveva i requisiti necessari alla realizzazione della pellicola, ed il regista sarà costretto ad operare una selezione. La scelta cade su Colman King (l'uomo di Aran), Maggie Dirrane (la moglie), Michael Dillane (il figlio) più alcuni pescatori, che in una delle scene più belle del film interpretano i predatori di squali.
Nonostante Flaherty si avvalga di "attori" (termine improprio ma necessario al contesto), non possiamo parlare di un vero e proprio film: non esiste una trama, e la macchina da presa riprende i personaggi mentre svolgono il lavoro di tutti i giorni, lo stesso che anni prima avevano svolto i loro padri e ancor prima i padri dei loro padri; le asperità dell'isola non permettono altro se non ritirare le reti, spaccare e spianare la roccia, essiccare le alghe, coltivare patate.
Questa abnegazione al lavoro, al sacrificio, propria dei popoli che non conoscono altri orizzonti al di là di quello che è concesso dalla capacità dello sguardo, è descritta con una qualità realistica sorprendente; la correlazione tra l'uomo e la natura è il centro gravitazionale intorno al quale ruota l'intera pellicola.
La forza degli elementi non rappresenta un ostacolo per i pescatori; c'è un rispetto nei confronti di questa manifestazione di potenza della natura che sfugge a noi uomini "civilizzati". Lo sguardo che il pescatore rivolge al mare in burrasca che gli ha appena scaraventato la barca sugli scogli non è uno sguardo di rabbia o di sconforto ma di sfida e di ammirazione; non c'è ostilità ma una perfetta simbiosi, l'uomo è la natura stessa per la quale vive e, se il destino lo vuole, per la quale muore.
L'aspetto documentaristico non disturba minimamente il ciclo narrativo che, al contrario, ne sfrutta tutte le qualità; dotare un documentario di una sceneggiatura con protagonisti che sanno di essere ripresi da una videocamera o l'aver dovuto ricostruire la straordinaria caccia allo squalo (un tipo di pesca che non si praticava più da oltre ottanta anni), non toglie assolutamente nulla alla bellezza delle immagini di questa pellicola, immagini che non hanno bisogno di colori: la magnificenza della natura può stupire anche in bianco e nero.
Il fascino che trasmette il film è quello che deriva dalla bellezza sublime, dalla contemplazione e dall'osservazione degli aspetti spaventosi della natura, dal giudizio di bellezza rivolto a cose di per sè impressionanti, smisurate, capaci di suscitare non un'impressione di armonia, ma di potenza senza limiti, di paura, di dolore.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 15/12/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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