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Presentato con successo al Sundance Festival di Toronto e, successivamente, al Festival di Berlino, "Urlo - Howl" mostra qualità che lo rendono uno dei film più interessanti dell'anno e, forse, uno dei più deludenti. Le ragioni sono diverse.
Dipende tutto dalle angolazioni. C'è sicuramente un tentativo nobile del cinema contemporaneo di flirtare con la letteratura, cercando di rendere protagonista proprio il testo omonimo, che si esprime attraverso le parole di un'icona ingombrante e discussa come Allen Ginsberg, o per meglio dire del suo portavoce (l'attore James Franco).
Ora, appurato che il reducismo non è altro che quella forma di inversione capace di standardizzare ogni rivoluzione culturale e filosofica del passato, diciamo subito che l'operazione in sè è dignitosa, celata purtroppo da uno smacco snobistico non del tutto giustificabile.
Rob Epstein e Jessie Friedman scelgono una strada a metà tra il biopic e il documentario, frammentando il tutto con immagini di repertorio atte a mettere in rilievo la dimensione del "manifesto temporale".
Epstein in particolare, noto militante gay e documentarista di fama, ha al suo attivo un curioso documentario su Harvey Milk del 1985, che a sua volta ha ispirato un recente e celebrato film di Gus Van Sant. Non a caso, le ultime immagini di quel film, quando Sean Penn cala il sipario sulla storia e si vede il volto del vero Harvey Milk, sono rubate proprio al film di Epstein.
In "Urlo - Howl" c'è la mano di Gus Van Sant come produttore. Un'influenza evidente. Persiste, nel cinema di Van Sant, il bisogno di espiazione nel raccontare i suoi personaggi. Lo ha fatto con le ultime ore di Kurt Cobain ("Last days") mentre cercava, senza riuscirci, di collocare i miraggi degli anni sessanta nella dimensione nichilista di una rockstar di fine millennio. E attraverso gli slogan di Harvey Milk, profeta di una rivoluzione culturale dove era necessario immolarsi come "ultimo martire" (dopo Kennedy, Martin Luther King, Malcom X, Che Guevara, etc.).
"Urlo - Howl" racconta in primis del celebre processo per oscenità del 1957 in seguito alla pubblicazione dell'omonimo e controverso poema di Ginsberg, una delle poesie più rivoluzionarie del XX Secolo.
La presentazione in versi alla Six Gallery di San Francisco nel 1955 precede un periodo abbastanza movimentato nell'establishment americano, dopo la fine del Maccartismo e l'espropriazione indebita di un codice di linguaggio finalmente realistico e innovativo, che ha messo alla berlina tutti i conformismi vigenti.
Dal periodo buio del Maccartismo l'America si è trovata ad affrontare una controrivoluzione che, negli anni successivi, avrebbe seminato molto più di quanto ha, verso la fine del secolo, raccolto. Uscivano film che trattavano apertamente di droga ("L'uomo dal braccio d'oro" di Preminger), di alcolismo ("Dietro lo specchio" di Nicholas Ray), di omosessualità ("Tè e simpatia" di Minnelli, "Improvvisamente l'estate scorsa" di Mankiewicz). Tennessee Williams era il commediografo più amato.
La Beat Generation letteraria trovava in William S. Borroughs il suo portavoce più oltranzista ed estremo: inventore del cut-up, si permetteva alla fine degli anni Cinquanta di sconvolgere le masse con un libro, "The naked lunch", in grado di sconvolgere le masse con un incredibile mix di violenza e metafore allucinogene. Andy Warhol e Roy Liechtenstein creavano la pop-art.
In questo clima, con un'occhio di riguardo a un personaggio come Kinsey, le fasi del processo per "Howl" rilevano quanto gli oppositori (gli stessi di Harvey Milk) cedano il passo davanti alla difesa. dell'Arte come forma esclusiva di libertà espressiva, da parte di colleghi e giornalisti, nei riguardi di Allen Ginsberg.
Tutto questo fa tornare alla mente una deliziosa commedia degli anni 60, distribuita in Italia con un titolo a dir poco deplorevole, "Prendila, è mia!".
In quel film un rigoroso e rispettabile conservatore, James Stewart, prendeva le difese della figlia (Sandra Dee) davanti ai metodi poco ortodossi dello Stato di reprimere la protesta giovanile. La ragazza, appassionata del più scabroso degli scrittori viveur del Novecento, Henry Miller, era pronta a difendere quelle pagine anche davanti al rifiuto iniziale del padre a considerarle "opere d'arte".
Stewart riusciva però a frenare il suo disappunto, e - difendendo il valore democratico delle idee - si trovava in prima linea a proteggere "la pietra dello scandalo", insieme a tanti giovani entusiasti e ribelli.
"Urlo - Howl" è un poema in tre atti dove l'autore dà libero sfogo alle frustazioni personali e alle sue idee sulla società del benessere. E' una prosa secca, furiosa, devastante, ma ancora oggi qualcuno la ricorda unicamente per quei versi dove la scurrilità sfugge a tutte le catalogazioni metaforiche messe in atto. E' un libero fluire di immagini e invettive che esprimono, proprio come "Il pasto nudo" di Burroughs, la deviazione morale attraverso la quale si cela il vuoto perbenismo.
La Beat Generation, attraverso la quale si sono mossi lo stesso Ginsberg e Burroughs, Keruack e Neil Cassidy, Ferlinghetti e Gregory Corso, ma anche outsiders come Ed Sanders e Tuli Kupferberg (fondatori di un gruppo musicale lisergico e irriverente come i Fugs) vive nel film tra i fumi di alcool dei locali, tra le svariate droghe e il be-bop. il free-jazz e l'omosessualità vigente che declama lo stesso Ginsberg.
Nonostante l'efficace alternarsi di estetica da fumetto e documentario, il film fa di Ginsberg l'eroe maledetto e delirante che tutti noi immaginiamo, senza peraltro scavare più a fondo sull'importanza radicale del personaggio.
E a un certo punto il film, nella sua sincerità un po' ingessata, finisce per svilire l'importanza del testo, facendo pensare davvero a "Howl" come uno sfogo onanista di uno scrittore-poeta in fuga dai suoi demoni (vedi la schizofrenia della madre e la malattia psichiatrica come illusoria forma di rifiuto del conformismo militante).
L'impressione è quella di un film impeccabile nella forma, che non riesce però a raggiungere lo spettatore inesperto e illuminarlo sull'importanza storica di "Howl", con le sue vicissitudini giudiziarie e la sua ottica letteraria.
Oggi "Howl" ha una veste autoriale alquanto singolare, in quanto si traveste da icona per trasmettere i conflitti e le ribellioni di una generazione pronta a mettere in discussione tutte le contraddizioni sociali del conformismo militante. E' infatti interessante lo "strumento" che ne fa il film, come se protagonista assoluto sia il poema di Ginsberg, l'effluvio di parole attraversate da immagini, piuttosto che lo stesso autore.
L'immaginario metaforico diventa realismo e cancella la fastidiosa sensazione che serva ad alimentare, oggi, la fame insensata di una ribellione retrò da parte delle nuove generazioni.
Le vicissitudini di Ginsberg, i frequenti rapporti omosessuali e i successivi viaggi lisergici in India, la morte della madre in manicomio, diventano forme assolutorie di liberazione.
Lo stesso tema della schizofrenia come atto di massima espressione di libertà è soprattutto una ferita personale da rimarginare, o da attutire. Il tema del Moloch, come Divinità, assume un concetto astratto (di sacrificio) atto a sconsacrare ogni riferimento alla pubblica ottusità del moralismo di massa.
La (bella) fotografia di Howard Lachman - già collaboratore di Wim Wenders per "Nick's movie" (1980) descrive abilmente il disagio di questa generazione di autori nei confronti della società americana.
Purtroppo alla fine si assiste a un crocevia controverso tra prosa e cinema, con gli spettatori di oggi divertiti e frastornati dalle parole di "Howl", come quelli della Six Gallery di San Francisco, nel lontano 1955.
E persiste la dimensione di "Icona", tanto più che il film si allontana da quanti non hanno conosciuto né letto mai nulla del "vero" Ginsberg.
Quanto ci assiste, questa distanza?
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 11/10/2010 17.59.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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