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Che talento incantevole ha la giovane regista francese Valérie Donzelli. Dopo il grande successo di critica (internazionale) e di pubblico (in Francia) del suo "La guerra è dichiarata" (2011), la giovane transalpina torna a fare centro con il suo terzo lungometraggio, "Main dans la main", in concorso al festival del cinema di Roma 2012, incentrato anch'esso su opportunità e contraccolpi dei meccanismi di incontro e rottura dei legami affettivi. Applauditissimo dal pubblico al festival, sentiamo che questa perla avrà molta gloria ben al di là della cornice festivaliera.
"Main dans la main" ha le carte in regola per essere riconosciuto come un capolavoro della cinematografia francese contemporanea. La sua veste formale è quella di una commedia, caratterizzata da un inequivocabile french touch, intrisa di freschezza deliziosa, che strizza l'occhio a Buster Keaton e a Jacques Tati prescindendo dalla malinconia di entrambi.
La pellicola ha un andamento rapido e brioso, che si avvale di frequenti cambi di ritmo e invenzioni. E la Donzelli ha una capacità di svariare nei toni che sa di maestria consumata.
La pellicola mette in scena due personaggi che, non appena si imbattono l'uno nell'altra, vengono presi da quella che sembra una misteriosa patologia per cui non riescono a staccarsi l'uno dall'altra. Questa improvvisa "relazione" ha, come effetto collaterale, quello di mettere in crisi l'esclusività, totalizzante, con la quale entrambi vivono la relazione con un particolare "partner": Joachim con la propria sorella, Hélène con un'amica molto intima.
Di colpo, Joachim ed Hélène, loro malgrado, e senza in verità attrazione fisica, non possono fare a meno di stare assieme, compiere gli stessi gesti, di volta in volta imponendo l'uno all'altra le proprie azioni e decisioni.
E' un'invenzione visiva ricca, sullo schermo, di potenzialità strepitose. Ma si tratta di un assunto rischiosissimo. Infatti – viene da chiedersi non appena il bizzarro fenomeno si verifica – come farà la regista a reggere il film su questa buffa trovata, che potrebbe non tardare molto a rivelarsi stucchevole? E invece ce la fa; non diventa stucchevole. Il film è in continua ed esilarante evoluzione; l'intelligenza dello sviluppo drammaturgico è scoppiettante. Si avvale, in alcuni punti, di un ricorso (immaginifico) a una voce narrante, a un primo livello per imprimere decisi cambi di ritmo e procedere in avanti nella storia, ma a un secondo livello ciò imprime al racconto un'ulteriore prospettiva, straniata e "terza" fra personaggi e spettatore. E' lì che tra l'altro, inevitabilmente, il pensiero va un po' anche a Truffaut.
Con grande capacità allegorica e padronanza di uno stile decisamente personale, la Donzelli ci svela, come non l'avevamo mai capito veramente, quanto i legami possano essere tanto più una schiavitù quanto più si limitano a strutturarsi dentro i canoni. E quanto invece la libertà più autentica con cui vivere un legame non possa che fondarsi sulla liberazione da ciò cui, prima, si era vincolati. Ivi comprese le convenzionali costrizioni di una vita di coppia. Anzi: una "vita di coppia" può essere la prima e più grande costrizione: non per sua natura, ma per come ineluttabilmente può essere subìta.
Quanto "Main dans la main" suggerisce è che l'amore vero (quello in cui ci si sente veramente se stessi) non può scaturire che da una liberazione, non può generarsi che da una rivoluzione (interiore).
Joachim ed Hélène non potrebbero essere più diversi. Lui lavora come vetraio in una bottega; lei è direttrice della scuola di danza dell'Opéra di Parigi. Lui (interpretato con grande naturalezza da Jérémie Elkaïm, ex compagno della regista, nonché co-sceneggiatore del film insieme a lei) ha una quindicina d'anni meno di Hélène (elegantemente interpretata dalla brava Valérie Lemercier). Lui viene dalla provincia, e si muove in skateboard anche per le vie di Parigi; lei non si muove senza autista, ed è perseguitata dal ministro della cultura, spasimante cui invano cerca di sfuggire. Un giorno si incrociano per caso, e non possono più fare a meno l'un dell'altra. Loro per primi senza capire cosa li abbia presi. Vivono da subito il loro vincolo con una rassegnazione cui non è estranea una certa curiosità. E' proprio la curiosità a consentir loro di aprirsi gradualmente agli aspetti stimolanti della novità che li vede coinvolti.
Si genera una sublime vertigine nell'assistere alla situazione: è come se, proprio da una circostanza insopportabile per quanto è costrittiva, emergesse gradualmente una liberatoria sfumatura dadaista, inizialmente imprevedibile. L'invenzione è notevole: la duplicazione del gesto, nei più disparati contesti, è oggettivamente fonte di divertimento libero, fuori dagli schemi: irriverente come una performance surrealista. Come se la Donzelli avesse condito il suo film con un pizzico di Magritte o di Dalì.
La situazione, ad ogni modo, per i due è a lungo andare insostenibile. E' Joachim (l'uomo, non per niente) a decidere che per ritrovare se stesso deve liberarsi di Hélène. Perciò, le chiede di rompere l'incantesimo: dovranno tornare a compiere lo stesso gesto, nello stesso luogo dove tutto è cominciato, come in una favola (in fondo il film, fino a questo momento, è una brillante demistificazione dei cliché della commedia romantica). Adesso, Hélène si rende conto che la presenza di lui è divenuta parte della vita di lei: non vorrebbe farne a meno. Se accetta di liberarlo, è proprio perché vuole bene a Joachim, e non può negargli la libertà.
E' straordinaria la scena che sottolinea la loro separazione, nella quale, fra altre immagini che si accavallano, Joachim corre all'indietro nella notte, nudo, e sembra perdere l'equilibrio e precipitare verso il buio. Come se lasciarsi comporti pure uno smarrimento individuale.
Anche altri passaggi del film sono resi con sequenze oniriche come questa: momenti di montaggio creativo (come il finale) che sono i più alti risultati dello stile, libero e immaginifico, con cui gira – decisamente ispirata – la Donzelli (che nel film interpreta Véro, la sorella di Joachim).
La pellicola prosegue, cambia ancora pelle, fino al finale che non riveleremo. Un finale catartico, in cui i tasselli sembrano andare finalmente al posto esatto; un finale che suggerisce, per la pellicola tutta, un nuovo senso, che non sospettavamo ancora.
Preso atto di ciò che è inevitabile (c'è un passaggio funebre, risolto con un pizzico di ironia, che è tappa fondamentale) e di ciò che invece inevitabile non è – e superate le reciproche paure – ciascuno può fare la tara della propria vita, e acquisire più lucida consapevolezza di poter essere davvero padrone del proprio destino. Per esserne padroni occorre anche riconoscere le costrizioni sociali per quello che sono, e smarcarsi dalle sovrastrutture che ingabbiano l'esistenza. Non è un caso se il percorso dell'altoborghese Hélène sia quello al quale è necessario frapporre una maggiore distanza rispetto alla rigidità che la bloccava, come in una prigione dorata in cui non era felice.
Fuori dagli schemi, Hélène è libera, finalmente felice di danzare. A quel punto, legarsi diventa davvero frutto di una scelta, e non circostanza casuale subìta come una ventura o una sventura della sorte. Ma, per questo, occorre andare fino in fondo, saper rinunciare a ciò che non è autentico.
La Donzelli, dal canto suo, è bravissima a girare la sezione finale del film come fosse – forse – solo un sogno. La regista gioca, con squisita eleganza, con le aspettative dello spettatore, assecondandole e al contempo sintonizzando le esigenze di lieto fine, che una commedia romantica pretende, con la sua poetica essenzialmente irriverente e anticonformista. Iconoclasta come la scena più memorabile del film: quella in cui Hélène si denuda nel lussuosissimo ufficio del nuovo ministro che la sta licenziando, e per coprirsi e andarsene strappa via un sontuoso tendaggio. Applausi a scena aperta.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 16/11/2012 15.46.00
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