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Il surrealismo si proponeva di svelare una realtà superiore attraverso il metodo dell'associazione istantanea, sintetica e privata delle spiegazioni logiche che collegavano l'uno all'altro elemento captato e citato: nella convinzione dunque che mediante l'esposizione di questi piccoli misteri dettati dal pensiero, si riuscisse a sollecitare il grande Mistero che sta dietro alla vita, quella realtà superiore che si fonda sul difficile connubio tra realtà e sogno, tra cosa vissuta e cosa non del tutto vivibile, tra concretezza estrema ed estrema trascendenza.
E' innanzitutto un esercizio di memoria, un disporsi ricettivo (o anche passivo) da parte dell'artista "veggente" a quella dimensione onirica suprema che la logica vigile troverebbe altrimenti impercorribile. Insomma l'arte surrealista s'imponeva come scopo il procedimento spontaneo proprio dei sogni, di sottomettersi meccanicamente al potere suggestivo del loro dettato, e di giovarsene, in un secondo momento, sul piano conoscitivo sacrificandone ogni funzione di tipo estetico o morale.
Tuttavia, per quanto nobile fosse l'intento dei surrealisti, un intervento in qualche modo estetizzante e modellatore da parte dell'artista necessariamente rimane; basta vedere questo primo esperimento di Maya Deren per rendersene conto.
Diciamolo subito: benché girato con poveri mezzi, il film è seducente e bellissimo, ricco d'invenzioni registiche e di soluzioni virtuose che fanno a tratti pensare a quell'opera, così impetuosamente fondamentale per l’evoluzione del cinema moderno, qual è stata "Quarto potere" di Orson Welles, uscita appena due anni prima.
Ma la scomposizione narrativa di "Meshes of the afternoon" ha poco a che fare con quella apportata da Welles nel suo esordio e, seppure l'opera della Deren si collochi nel contesto del nuovo cinema americano d’avanguardia, si può ben dire che essa faccia primariamente riferimento, oltre che in generale al periodo del muto, a opere come "Un chien andalou" (altro scioccante esordio cinematografico), al verbo surrealista e all’attuazione apparentemente rapsodica del suo procedimento.
Il primo cortometraggio della Deren viene realizzato una ventina d'anni dopo dalla pubblicazione del manifesto di Breton, e pochi di meno dall'uscita della celebre pellicola firmata dalla coppia Bunuel/Dalì; ma si presenta come un aggiornamento e una riconquista di certi temi di rara potenza, dove è avvertibile appieno, molto più che altrove, la grande angoscia di volere risalire all'essenza del Sogno, e anzi dell'Incubo, di dipanarne la matassa e di provarne a sciogliere i nodi interpretativi. Il film è innanzitutto l'espressione di un vasto disagio, e in particolar modo localizzabile in una soggezione di natura comunicativa.
Si veda: se si esclude la figura enigmatica dal mantello nero, o quell'uomo (Alexander Hamid, a quel tempo marito della Deren) che compare improvvisamente e sorprendentemente nel finale, la protagonista è pressoché l'unica forma vivente presente nella pellicola: risulta isolata, chiusa in se stessa, vittima di un'ubiquità claustrofobica che la proietta anche più volte nella stessa scena, inerte, vaga sonnambula in una sorta di stato di trance meditativo.
E il braccio lungamente teso della prima immagine sembra provenire proprio da quella elevata dimensione a cui sopra si accennava, da così alto Mistero; discende a posare un primo elemento di questo magnifico rebus: un fiore dai grandi petali come occhi spalancati; un organo vivente la cui gola, il proprio stelo, è stata tagliata di netto, e a cui manca di conseguenza il respiro.
"Meshes of the afternoon": l'interno di un'abitazione, un fiore reciso, una chiave, un coltello, uno specchio, una scala, una poltrona che affaccia sul quartiere, alcuni fogli di quotidiano a terra, la cornetta sganciata di un telefono, un disco lasciato suonare... e una figura ammantata di nero che s'allontana sul vialetto.
Letteralmente traducibile come "Le trame del pomeriggio" (o meglio ancora si potrebbe dire "di un particolare pomeriggio") la pellicola si presenta come una rete di analogie oniriche in cui ogni nodo, ogni indizio, ogni azione, ogni oggetto è l'elemento e assieme ciò che lo correla agli altri elementi, è l'addendo di un'ardua moltiplicazione il cui risultato dovrebbe essere, appunto, l'Assurdo senza rispondenza che cela ovunque il vivere di ogni giorno.
Sembra che tutto venga trovato casualmente, tra sonno e veglia, ed invece un sottile filo di logica c'è, o perlomeno lo si prova a risalire.
La chiave apre la porta all'enigma e quindi alla soluzione. Il coltello riconduce a una realtà più violenta, spaventosa, più immediatamente percepibile. La cornetta sganciata e il disco che suona servono a mandare alla mente l'idea di un momento bruscamente interrotto, così come le pagine di giornale che giacciono sul pavimento.
E se la sagoma col mantello nero sta sicuramente a simboleggiare il Mistero - l'oscura morte, l'eterna annientatrice - e quando si volta, per brevi istanti, ha uno specchio a posto del volto, e si porta via il fiore; è lo specchio a sua volta un emblema antico d'illusione e d'inganno, la cui superficie restituisce una realtà diversa, frangibile, contraria e spersonalizzata, moltiplicata ma del tutto impenetrabile. Mentre la scala dovrebbe rappresentare il varco angusto che allaccia le due dimensioni, reale e onirica - sofferta, vorticosa, inospitale.
"Meshes of the afternoon": l'interno di un'abitazione, un fiore reciso, una chiave... ma la chiave, dopo che l'ombra ha raccolto il fiore, dopo che è scivolata sulle mura deserte, la chiave cade davanti alla porta, precipita via dalle mani, rotola come un masso lungo lo strapiombo dei gradini.
Viene raccolta, apre la porta, ma ha già lanciato il suo avvertimento: ogni accesso sarà difficoltoso. La ripetitività prevale, degli oggetti e dei frangenti; proprio come avviene quando si prova a ricordare un sogno svanito: bisogna ripercorrerlo più e più volte. E ad ogni visita, un particolare beffardamente cambia, capita che un oggetto muti di posizione o si trasformi in un altro. Insomma vediamo diverse volte riproporsi alcune sequenze, ma le nuove situazioni specchiate non sono mai identiche a quelle che le precedevano. Ad ogni apertura, un indizio si aggiunge, avvicinando in tal modo la protagonista alla soluzione, ma al contempo aggravandone la confusione.
Nell'appartamento incrementa gradualmente il disordine. Cambiano continuamente le prospettive. La stessa Maya - che oltre ad essere regista interpreta il ruolo della protagonista - si moltiplica: è ora la donna che s'assopisce sulla poltrona; è ora colei all'inseguimento della figura ammantata di nero sul vialetto; ora colei che sale al rallenty muto la scala a chiocciola - in cui la bravura della Deren nell’alterare gli spazi scova un abisso, un vortice denso d'affanni, faticoso a salirsi - è la sognatrice e la sognata, la filmante e assieme la filmata. Osserva se stessa e da se stessa si lascia osservare.
E' ovvio che in tale rappresentazione avviene una frantumazione temporale: il presente non esiste, così come una cronologia dei fatti: tutto è sogno passato.
Sappiamo che la Deren s'interessò, nell'arco della sua vita e della sua formazione artistica, a certe pratiche esoteriche, al Voodoo e prima ancora alla religione buddista, e da ciò possiamo meglio comprendere, oltre che l’origine di molti simboli presenti nell’opera, la scelta del commento musicale (in verità molto bello e affascinante) decisamente dallo stile orientale, che solo diversi anni dopo verrà inserito, e che bene predispone alla dimensione onirica lo stato d'animo dello spettatore e dell'ascoltatore.
Sappiamo anche della sua passione per la danza, e dell’ammirazione nei confronti della carriera dei grandi comici del muto (Chaplin, Keaton in particolar modo); e tali influenze le si possono intravedere, entrambe, nella recitazione corporea e aggraziata che attua in questo suo primo cortometraggio: ecco ritrovato uno di quegli aspetti estetizzanti di cui si parlava.
Benché madida di una forte liricità la fotografia è drammatica, il campo profondo, gli scenari spesso schematizzati.
"Meshes of the afternoon": l'interno di un'abitazione, un fiore reciso, una chiave, un coltello... il coltello, man mano che ci si avvicina alla conclusione, è l'oggetto che certamente prevale. La chiave diviene il coltello. Il fiore posato sul letto, diviene il coltello. Il riflesso dello specchio, è quello della lama del coltello.
Cosa significa? - Frammenti sulla riva! La protagonista che osserva dalla finestra il vialetto tira fuori dalla bocca la chiave. Ha come l'impressione di avere trovato il bando della matassa. Il coltello. Carpito l'enigma. Ma quando si siede al tavolo assieme ai propri doppioni, prendono a turno la chiave; e non appena afferrata, la chiave torna a stare dove stava.
Sopravviene e si focalizza, nel finale, un uomo inatteso - il marito, un amante? - che ripercorre le azioni della figura ammantata e quelle della protagonista.
Apre la porta, sale le scale, porta in dono un fiore, si specchia, s'allontana rapido sul vialetto. Vi introduce in sé un ultimo elemento decisivo.
Gli ultimi passi della Deren sono solenni, il suo sandalo ingigantito calpesta suoli diversi, inquadrati rasoterra su sfondi marini, sabbie, prati, marmi: è l'ultima passeggiata sopra la realtà e il sogno, sopra arte e vita, prima della morte: del resto il rebus è ben risolto, almeno in parte; ne vediamo la soluzione, terribile tra i frantumi, giacere immobile sopra la poltrona.
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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 01/03/2010
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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