Recensione moonrise kingdom - una fuga d'amore regia di Wes Anderson USA 2012
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Recensione moonrise kingdom - una fuga d'amore (2012)

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locandina del film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE

Immagine tratta dal film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE

Immagine tratta dal film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE

Immagine tratta dal film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE

Immagine tratta dal film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE

Immagine tratta dal film MOONRISE KINGDOM - UNA FUGA D'AMORE
 

"Spero che il tetto voli via e che io venga risucchiato nello spazio. Staresti meglio senza di me".
Walt Bishop

L'ultima fatica di Wes Anderson, al settimo lungometraggio, esce attesissima nei cinema degli States nel Maggio 2012, dopo aver aperto il 65° Festival di Cannes. Il regista, dopo averci abituato a una produttività con cadenza triennale, si presenta puntuale all'appuntamento coi fan (l'ultimo film infatti risale al 2009), che negli ultimi anni si sono moltiplicati in numero, complice il suo stile chiacchierato che trova facile linfa nei passaparola tra amici, e in aspettative.
Del resto il suo curriculum recita: "Un colpo da dilettanti", film nato da un cortometraggio autoprodotto e che testimonia la caparbietà del ragazzo; "Rushmore", prime prove di stile; "I Tenenbaum", manifesto del cinema Andersoniano scritto nero su bianco e passo verso la consacrazione definitiva al grande pubblico; "Le avventure acquatiche di Steve Zissou", prove di esasperazione dello schema base; "Il treno per il Darjeeling", piccole variazioni sul tema base; "Fantastic Mr. Fox", sperimentazione di una tecnica diversa, ma stessa pasta.

Tra il giovane Max Fischer, appassionato di materie extracurriculari quanto disinteressato alla comune carriera scolastica, e la fracassona famiglia Tenenbaum, imprigionata in vecchie prospettive e vecchi indumenti, in mezzo all'equipaggio della Belafonte alla ricerca di uno squalo di cartapesta che nemmeno esiste e sul Darjeeling Limited per un viaggio spirituale con tre fratelli che non fanno che parlarsi alle spalle, passando infine per i colori caldi e autunnali del boschetto di fronte agli allevamenti di Boggins, Bunce e Bean, lo spettatore ha avuto modo di entrare a far parte del mondo di Wes Anderson colorato a pastelli e di simpatizzare per i suoi personaggi cult.
Forse sa pure cosa aspettarsi perché tanto passano gli anni, ma il regista di Houston dimostra di non sentirli sul suo cinema. L'aria che si respira sempre è agrodolce, magicamente sospesa tra la luce dei sogni e delle ambizioni dei suoi personaggi e il buio in cui, tristemente, sono destinati a decadere.
La caratterizzazione, curiosamente, è affidata più alla cura dell'esteriorità, in particolare dell'abbigliamento, degli accessori, dello stile, anziché ad un approfondimento psicologico, come si converrebbe a un'opera cinematografica o letteraria. Molti personaggi sono accomunati dall'inadeguatezza e dall'inettitudine nello svolgere il proprio ruolo, specialmente famigliare, offuscati da sogni e ossessioni sulla cui utilità o sul cui significato si interrogano di continuo e che finiscono puntualmente per non raggiungere o soddisfare.
Grandi e piccoli si scambiano doveri e responsabilità, in un gioco burrascoso di psicologie invertite che dipinge gli adulti come degli incapaci votati al fallimento, dal quale forse solo i figli possono salvarli. L'amore, infine. Puro e genuino (tranne in The Darjeeling Limited), come nelle storie sui libri illustrati e tuttavia non sempre ricambiato, impiastricciato dai piccoli ostacoli che si trovano nella vita reale. Che ci piaccia o no, il fantastico mondo di Wes Anderson non è tutto racchiuso nella campana di vetro delle favole.
Ecco, ora siamo pronti, sappiamo cosa stiamo per vedere, anzi chi. Assistiamo perciò a "Moonrise Kingdom".

1965, New Penzeance, isola fittizia del New England. Un buffo personaggio vestito da folletto (Bob Balaban) ci introduce alla geografia del luogo e ai fatti che stanno per accadere, viaggiando, da buon narratore onnisciente ed esterno alla storia, tra tempo e spazio a suo piacimento. Ci anticipa anche come andrà a finire: con una violentissima tempesta. Il risultato di questa parte introduttiva è sottilmente comico, grazie al montaggio che proietta il narratore da una parte all'altra dell'isola, attraverso rapide sequenze che sembrano foto estremamente colorate.
La storia racconta di due giovani amanti che fuggono dalle loro esistenze, già noiose e insoddisfacenti, per stare insieme: uno è Sam Shakusky, orfano membro dei Khaki scout del Campo Ivanhoe, che però non è ben visto dai compagni; l'altra è Suzy Bishop, relegata nella casa tranquilla e borghese con genitori separati e tre fratelli.
Conosciutisi durante una recita l'estate prima e tenutisi in contatto epistolare durante tutto l'anno, i due si danno appuntamento in un campo per fuggire insieme lungo un antico percorso dei Chich-Chaw. La fuga dei due scatena subito le ricerche da parte dei Khaki scout, guidati dal meticoloso Randy Ward (Edward Norton), e degli allarmatissimi coniugi Bishop.
Dopo una romantica notte nella baia Moonrise Kingdom, i due piccoli amanti fuggitivi vengono ritrovati e risegregati nelle loro grigie esistenze: Suzy torna a casa con il divieto esplicito di rivedere Sam, mentre questi viene assegnato a "Servizi sociali" (Tilda Swinton), trovandosi in assenza di tutore. Questa volta, a liberarli da una prigionia più serrata, intervengono i compagni di Sam, in nome di una ritrovata etica Khaki scout; i due vengono quindi condotti dal cugino Ben (Jason Schwartzman) di un campo più grande, che li sposa.
Nel frattempo la tempesta preannunciata si scatena. Nel finale concitato, la storia d'amore ha modo di finire lietamente grazie all'intervento del Capitano Sharp (Bruce Willis), che salva eroicamente i ragazzini dalla furia del ciclone e accetta di prendere in adozione Sam, preservandolo dalle grinfie di Servizi Sociali.

L'impressione che si ha è di aver assistito all'opera più misurata e matura di Wes Anderson, un capolavoro autentico di stile, colmo di una poesia struggente.
Ripulito delle incrostazioni superficiali di immagine de "I Tenenbaum" e degli aggrovigliati rapporti famigliari di "Steve Zissou", che niente avevano da invidiare alle millenarie soap opera statunitensi, Anderson compie un lavoro di ellissi e rifinitura su se stesso, contenendo quell'espressività saturata che lo aveva contraddistinto, e che non sempre portava a risultati felici, e portando al perfezionamento quelle tematiche che già esistevano, in forma più o meno fetale, nel suo cinema.

La fotografia a toni caldi, già marchio di fabbrica, si alterna ai pittoreschi scenari chiari della natura, al verde e al marroncino delle divise scout, ma stavolta si arricchisce di una buona componente dark e onirica, apprezzabile nelle due sequenze della recita (prima il flashback che mostra l'occasione in cui Suzy e Sam si sono conosciuti, poi la recita finale) nonché, ovviamente, in tutta la scena caotica della tempesta che, se non è onirica, rappresenta comunque un momento di tensione sconosciuto al cinema di Anderson. L'esatto uso dei colori esalta il significato del momento e ciò che viene raccontato sullo schermo.

Ancora, la narrazione quasi si diverte ad attraversare, senza eccessi, una serie di differenti generi - prima avventura, poi romantico, poi, se vogliamo, azione e horror, per l'uso già detto delle atmosfere - riproducendone, per ciascuno di essi, il senso e il pathos.
La tensione narrativa è un unico filo con la storia d'amore dei piccoli Sam e Suzy: prima rilassata, quando ci si abbandona ai soli sogni e alle speranze dei suoi protagonisti, poi sempre più serrata, nel momento in cui il mondo adulto fa irruzione e presenta tutti gli ostacoli amministrativi e legislativi del percorso, rovinando così, col suo garbuglio burocratico, un desiderio di fuga tanto semplice, ingenuo e irrazionale.
A questo proposito la suddetta variazione tonale della fotografia non è casuale; Wes Anderson sembra tributare appositamente ai piccoli protagonisti una fotografia chiara e lucente, lasciando le nubi nere finali al mondo dei grandi.
La citazione di apertura ci dà un altro assaggio del cupo mondo adulto: Bill Murray, dopo esser stato un pedantissimo accademico responsabile dello sfiorire di una promettente scrittrice ed un padre inconsapevole dell'esistenza di un figlio che lo considera un mito, non può cancellarsi dalla faccia l'aria da uomo rassegnato, annoiato e stanco. Stanco di vivere per sé e stanco di vivere per gli altri, perché la sua morte, ora che è perfettamente conscio dei tradimenti e del disinteresse della moglie, sarebbe solo un fastidioso peso per i figli. La sua esistenza, dunque, deve ridursi ad un meccanico andare avanti, per non compromettere la tranquilla crescita dei bimbi.

In tutto ciò, i personaggi folli e fuori dalla loro età continuano ad esistere, portati in scena da un cast che si arricchisce di stelle del calibro di Edward Norton, Bruce Willis, Tilda Swinton, Frances McDormand (signora Bishop) e Harvey Keitel (che in un cameo interpreta il comandante dei Khaki scout), oltre ai soliti nomi noti del cinema di Anderson.
Ma ciò che è importante rilevare è che stavolta i protagonisti assoluti sono due perfetti sconosciuti, i piccoli Jared Gilman (Sam) e Kara Hayward (Suzy); le grandi star si fanno da parte per propiziare la danza degli unici veri divi del film. E' come se il vecchio cinema di Anderson e i suoi vecchi personaggi se ne stessero a guardare.
Comunque, oltre al già analizzato Murray, vanno riconosciute altre note di merito: a Norton - salvato in questo caso dalla raccapricciante piega che stava prendendo la sua carriera - che dà la giusta aria da ingenuo bamboccione al suo Randy Ward, un personaggio che non si può non amare per il modo in cui si veste di responsabilità e puntigliosità in un mondo, quello degli scout, studiato per educare i bambini e che di per sé ha del tenero; a Tilda Swinton, il cui nome è ironicamente sostituto con l'istituzione che rappresenta, a conferire un'aria dispotica, autoritaria e sgradevole; e a Bruce Willis, un positivissimo Capitano Sharp, personaggio che sa capire l'amore e sa rinunciarvi in nome di qualcosa di più grande, accetta di farsi da parte con la signora Bishop per il bene di Suzy e adotta il piccolo Sam per consentire il perpetuarsi dell'altra storia d'amore, quella centrale.
Cercando bene nel cinema di Anderson, riesce difficile trovare un altro adulto così positivo come il Capitano Sharp, un personaggio ideale al quale tendere, un totem per i piccoli sognatori della sua storia.
Un ultimo personaggio che conviene citare è la signora Bishop, un repellente esempio di irresponsabilità e debolezza materna che congeda Sharp con un "probabilmente ti rivedrò domani" colmo di significati.

Un'ulteriore chicca di "Moonrise Kingdom" è il modo in cui si dipana la narrazione, che non segue linearmente le vicende dei protagonisti né ce li introduce subito, preferendo invece presentarli da angolature leggermente decentrate e intervenendo con dei flashback a posteriori a chiarire.
Da antologia tutta la costruzione della scena iniziale ambientata nel campo Ivanhoe, nella quale in 5 minuti di precisa illustrazione della vita in un campo scout risulta, finalmente, la scomparsa del piccolo Sam, che è proprio il nostro protagonista. E particolarissima anche la scelta di inserire un narratore esterno che non racconta dei piccoli Sam e Suzy e delle vicende strettamente legate al film, ma fornisce una presentazione documentaristica e storica dell'isola all'epoca dei fatti, in chiave ironica ovviamente perché sappiamo essere tutto, compresa l'isola, frutto dell'immaginazione. Non essere caduti nel facile tranello del narratore, che semplifica di molto le cose quando si tratta di introdurre una storia, è un altro passo avanti di Wes.

La colonna sonora, per una volta, lascia da parte i nostalgici temi anni '70 che qui avrebbero decisamente stonato e si concentra su una superba commistione tra la classica, le suggestive voci bianche di Benjamin Britten e le composizioni originali di Desplat, già autore delle musiche di "Fantastic Mr. Fox".

A conti fatti, il Cinema di Wes Anderson è una mosca bianca del panorama cinematografico odierno; laddove il cinema autoriale si dedica a storie di pessimismo, di cruda realtà o di fantasia malata, c'è ancora qualcuno che guarda con speranza e ottimismo al futuro della nuova generazione, non senza un alone di malinconia che ovviamente non guasta e che investe, per di più, la vecchia generazione.
"Moonrise Kingdom", già dal titolo evocativo, ne è l'esempio.
Verrebbe da dire che ce n'era bisogno.

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Recensione a cura di julian - aggiornata al 21/10/2013 18.10.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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