Recensione nemico pubblico regia di Michael Mann USA 2009
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Recensione nemico pubblico (2009)

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locandina del film NEMICO PUBBLICO

Immagine tratta dal film NEMICO PUBBLICO

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Immagine tratta dal film NEMICO PUBBLICO

Immagine tratta dal film NEMICO PUBBLICO
 

"Col pretesto della vostra sicurezza vi priveranno dei vostri diritti e delle vostre libertà".
Richard Dupuy

Esistono film capaci di imporsi nella storia del cinema, liberandosi dai rigidi confini del periodo storico e del contesto socioculturale che li ha visti venire alla luce. Altre pellicole, invece, sono strettamente collegate al momento in cui queste vengono prodotte.
Spesso non si tratta di un limite, né di un errore degli autori, bensì di una scelta ponderata, che generalmente scaturisce dalla volontà di trasmettere al pubblico un messaggio attuale e concreto.
Appartiene a questa seconda categoria l'ultima fatica del regista di Chicago, Michael Mann.

Per raccontare il mondo di oggi, ispirandosi al libro "Public Enemies" di Bryan Burrough, Mann ha scelto una storia vera appartenete al passato, quella del criminale John Dillinger.
Questa affermazione può apparire troppo categorica, ma è sufficiente evidenziare quante e quali modifiche Michael Mann, coadiuvato da Ronan Bennett e da Ann Biderman, ha apportato alla Storia in sede di sceneggiatura per capire che il suo intento va al di là della ricostruzione storica.
Su queste modificazioni torneremo più avanti.

Il film racconta la storia degli ultimi mesi di vita del rapinatore John Dillinger (Johnny Deep) e quella di alcuni personaggi che ruotano intorno a lui fra cui Pretty Boy Floyd (Channing Tatum), John "Red" Hamilton (Jason Clarke), Baby Face Nelson (Stephen Graham), Alvin Karpis (Giovanni Ribisi), Frank Nitti (Bill Camp), Billie Frechette (Marion Cotillard), Melvin Purvis (Christian Bale), J. Edgar Hoover (Billy Cudrup).
La vicenda si apre nel 1933, durante la Grande Depressione, e narra i mutamenti politici e sociali di una Nazione attraverso lo sguardo frastornato dei personaggi principali che sembrano condurre un'anacronistica battaglia in puro stile guardie e ladri.

Inutile dilungarsi particolarmente sulla trama del film e, benché essa si muova su basi storiche e sia largamente conosciuta, si avverte il lettore che durante lo svolgimento di questa analisi si riveleranno tutti i principali accadimenti del film, incluso il suo finale.

Abbiamo accennato come la storia di Dillinger sia poco più che un pretesto scelto da Michael Mann per raccontare l'America di oggi. Utilizzare il passato per criticare l'odierno è un espediente narrativo ormai consolidato se non addirittura abusato (si pensi in ambito letterario a "I Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni).
Sarebbe una lettura alquanto superficiale, oltre che inutile, quella dello spettatore che crede di assistere alla lotta contro i Gangster di Chicago e alla nascita del F.B.I.
La società americana che Mann descrive è una società spezzata in due. Da un lato abbiamo ancora il ricordo dei fasti degli Anni Ruggenti; dall'altro abbiamo una popolazione che ha assistito al crollo di tutte le proprie sicurezze economiche e sociali, di tutte le proprie aspettative e dei propri sogni.
Un vortice fatto si sogni infranti, di fame e della paura di un futuro incerto trascina spesso via con sé anche i principi e gli ideali.

In questo contesto si muove un criminale che utilizza la carta stampata e i cinegiornali alla stregua di un uomo politico che vuole incontrare il consenso pubblico e ingraziarsi il popolo americano.
Questi è John Dillinger, un rapinatore di banche che agisce secondo la celeberrima frase di Bertold Brecht:

"Il vero ladro non è chi rapina una banca, ma chi la fonda".

Dillinger, infatti, è descritto come un eroe romantico che vive all'impazzata giorno per giorno, un moderno Robin Hood che non tocca i soldi dei cittadini (si ricordi che il denaro depositato nelle banche è assicurato dallo Stato Federale Americano) e che distrugge qua e là i registri riportanti debiti ed ipoteche.
Contraltare di Dillinger è Melvin Purvis, un agente della nascente F.B.I., infaticabile e tenace segugio che bracca le proprie vittime alla stregua di un cacciatore durante una battuta di caccia.
Non a caso Mann presenta il personaggio mentre questi sta inseguendo Pretty Boy Floyd per campi e boschetti. Il malvivente è armato dell'immancabile fucile mitragliatore Thompson, mentre Purvis è armato di fucile a canna lunga. Con quest'ultimo l'agente uccide il rapinatore sparandogli a distanza dopo aver preso con cura la mira.

Sullo sfondo della caccia che si scatena contro Dillinger abbiamo la criminalità organizzata di Chicago da un lato e le istituzioni della Repubblica Americana dall'altro.
In particolare risulta evidente la necessità di J. Edgar Hoover di giustificare l'utilità del proprio ufficio investigativo in modo di garantirsi dal Congresso i fondi necessari per mantenerlo.

È grazie a questa miscela che nasce il Nemico Pubblico, un soggetto che viene strumentalizzato dalle Istituzioni per ricordare ai cittadini quanto essi hanno bisogno di loro.
Mann ha realizzato l'intera pellicola senza mai perdere di vista questa evidenza. Ed è in quest'ottica che egli ha apportato le principali modifiche alla Storia.
Per esempio l'omicidio di Pretty Boy Floyd è un anacronismo. Come è un anacronismo la morte di Baby Face Nelson, che morì mesi dopo Dillinger e che fu a propria volta definito il Nemico Pubblico Numero Uno.
Assolutamente inventato è anche il terzo grado che nel film subisce Billie Frechette ed è anche ridotto all'osso il ruolo della traditrice Ana Sage (Branka Katic), che vendette Dillinger alla F.B.I. per non essere rimpatriata in Romania. In particolare Ana Sage è passata alla storia come la Donna in Rosso, a causa del vestito che indossava la notte dell'agguato a Dillinger per farsi riconoscere.
Nel film ella indossa sì una gonnella rossa, ma questa non è quasi mostrata al pubblico. Il suo personaggio è reso volutamente del tutto anonimo ed è costruito in perfetta antitesi a quello di Billie Frechette, che resta fedele al suo amato fino alla fine.

Fino a questo punto l'opera di ricostruzione storica e di descrizione dei personaggi optata da Mann appare impeccabile. Tuttavia egli ha trascurato, per ragioni non chiare, l'evoluzione narrativa della storia e, in particolare, è caduto in una serie di cliché, che definire autocitazione appare azzardato, di dubbia efficacia.

"Public Enemies" comincia con un'evasione da un carcere statale.
Durante l'evasione qualcosa va storto: uno dei membri della banda si accanisce violentemente e immotivatamente contro una delle guardie facendo così scattare l'allarme e provocando indirettamente la morte di Walter Dietrich (James Russo), amico di Dillinger.
Se pensate che la situazione sia analoga a quella narrata nella rapina con cui comincia il film "Heat" (1995) sempre scritto e diretto da Michael Mann, avete ragione.
E non solo. Durante la prima rapina in banca mostrata in "Public Enemies", Dillinger recita una battuta, che poi è stata leggermente modificata (sostanzialmente solo rovesciata) in fase di post produzione, analoga a una battuta recitata da Robert de Niro sempre nel menzionato "Heat":

"Siamo qui per i soldi della banca non per i suoi".

È anche vero che questa frase era già stata mutuata dal film "Bonnie and Clyde" (1967) di Arthur Penn, ma se la si aggiunge a quanto già detto e all'evidenza che il ruolo dualistico che si instaura fra Dillinger e Purvis non è strutturalmente diverso da quello già narrato fra Neil McCauley e Vincent Hanna, appare evidente anche allo spettatore più ingenuo quanto Michael Mann abbia attinto dal proprio precedente capolavoro.

A questo deve aggiungersi che i dialoghi spesso non convincono fino in fondo e sono poco incisivi, nonostante ricerchino costantemente la frasina di facile presa sul pubblico.
Tutto ciò contribuisce a impoverire quello che è sempre stato uno dei punti di forza del Cinema di Michael Mann: la costruzione e la descrizione dei personaggi.
Il risultato è che questa volta Mann offre dei personaggi spesso solo tratteggiati. In alcuni casi essi sono così poveri da passare davanti agli occhi dello spettatore come dei meri fantasmi, delle ombre che non lasciano traccia e che si dimenticano con facilità.
La ricerca di un racconto corale e magniloquente non è del tutto riuscita e così la sceneggiatura si perde in schemi scarni di spessore narrativo che rallentano immotivatamente il ritmo degli eventi e fanno scemare considerevolmente l'interesse del pubblico.

Questi difetti strutturali di sceneggiatura sono indubbiamente il punto debole della nuova opera di Mann. Tuttavia, chi scrive desidera invitare il lettore (e indirettamente lo spettatore) a cercare di accostarsi alla visione di questa pellicola con occhi vergini, ossia si reputa possibile che quanto affermato fino a questo momento valga per un pubblico cinefilo, ma si può dire la stessa cosa per uno spettatore che sta ancora muovendo i primi passi nella cinematografia?

Il confronto che si instaura a causa delle scelte di Mann fra "Heat" e "Public Enemies" vede inevitabilmente uscire sconfitta l'ultima pellicola. Ma se potessimo prescindere dal film "Heat", troveremmo ugualmente "Public Enemies" così lacunoso?
È indubbio che i citati difetti di sceneggiatura, in particolare quelli relativi alla costruzione dei personaggi, pesano comunque. Tuttavia è facile supporre che l'occhio dello spettatore potrebbe essere più indulgente.

Prima di continuare l'analisi dei contenuti, è opportuno soffermarci sul profilo tecnico di quest'ultima fatica di Michael Mann.

Che il regista di Chicago abbia una maestria invidiabile nell'uso del digitale, ormai è assodato. Inoltre la collaborazione fra Mann e dante Spinotti quale direttore della fotografia ha sempre offerto risultati eccellenti.
"Public Enemies" non solo non è da meno rispetto ai precedenti film realizzati, ma è addirittura superiore.
Immagine sgranata, luci diafane, colori privi di saturazione, costante ricorso all'uso della camera a mano, continuo alternarsi fra rapidi piani sequenza e soggettive contrapposte garantiscono un'esperienza visiva di rara potenza ed efficacia.In alcune sequenze lo spettatore si ritrova dentro alla pellicola senza neppure accorgersene.
In particolare si noti la maestosità della sparatoria nel bosco intorno al motel. La perfezione e la rapidità con cui sono dirette le sequenze di azione sono splendidamente bilanciate dall'armonia e dall'eleganza che trasudano da ogni sequenza in cui Dillinger e Billie sono vis a vis.
Si notino in particolare la scena del ballo e quella del corteggiamento al ristorante.
Tuttavia, anche queste scelte, in buona parte sperimentali, possono rivelarsi un'arma a doppio taglio e possono contribuire a dare alla pellicola un'impostazione eccessivamente documentaristica, troppo prossima a quella dei cinegiornali, che in alcuni casi stanca e non coinvolge.
Spesso si ha l'impressione che la minuziosa cura tecnica con cui ogni singola scena è stata costruita abbia giocato a discapito della dovuta attenzione all'impianto narrativo e alla sua evoluzione.

Parliamo adesso della relazione fra John Dillinger e Billie Frechette.
La loro storia è sviluppata inizialmente in modo assai superficiale e poco coinvolgente. Nei loro dialoghi compaiono la maggior parte di quelle battute ad effetto di cui abbiamo parlato prima come ad esempio:

"Mi piace il baseball, i film, gli abiti eleganti, le macchine veloci, il whiskey e te... cos'altro vuoi sapere?".

Ora, se i dialoghi lasciano presagire che la storia d'amore fra John Dillinger e Billie Frechette sia uscita dal manuale dell'aspirante sceneggiatore al solo scopo di creare empatia fra l'eroe maledetto e il pubblico, con lo svilupparsi della storia si è costretti a ricredersi. Quella che appare una delle più banali ed inutili storie d'amore, diviene uno dei perni su cui ruota l'intera vicenda.
Quello che Billie offre a John non è solo amore: è fedeltà, è abnegazione. Billie è l'antitesi della Donna in Rosso, volgare traditrice prezzolata.
La scena saliente del film, inutile dirlo, è quella del terzo grado cui Billie è sottoposta. Tutti i suoi diritti civili sono violati in nome di un presunto interesse superiore.
Billie è picchiata, insultata, assetata, maltrattata, obbligata ad orinarsi addosso. Niente di diverso da ciò che accade durante i fermi di polizia oggigiorno nei modernissimi e civilissimi stati occidentali.
Ed ecco che qui Michael Mann centra a pieno il proprio obiettivo: la denuncia degli stati moderni di diritto che violano i loro stessi principi fondanti in nome della lotta a un Nemico Pubblico.

Uno Stato che ha bisogno di crearsi dei nemici per giustificare ai cittadini la propria presenza, la propria utilità, la sua stessa esistenza, è uno Stato logoro e fondamentalmente corrotto.
Ha poca importanza se Dillinger sia un nemico interno o esterno allo Stato, quello che importa è che si tratta di un Nemico Pubblico. E in questo contesto assume ancora maggiore rilevanza il titolo originale del film che è Nemici Pubblici.
E così John Dillinger, Melvin Purvis, Baby Face Nelson, Billie Frechette e tutti gli altri personaggi si scoprono pedine di un gioco che non dipende da loro; un gioco istituzionale in cui i poteri forti combattono una guerra di popolarità e di populismo nell'ottica dell'affermazione e della legittimazione popolare del proprio diritto all'esercizio del potere.
I personaggi vengono travolti da questi mutamenti politici e sociali che fanno leva sulle paure più elementari del popolo.

Si noti, infatti, la costante battaglia di popolarità che si instaura fra i criminali e gli statali. Addirittura la stessa criminalità organizzata di Chicago decide di abbandonare i rapinatori per semplici questioni di immagine.
In tal senso è perfetta la sequenza durante la quale Dillinger si introduce in un comando della polizia e, passando davanti alle proprie fotografie segnaletiche, chiede ai poliziotti il risultato della partita, senza essere riconosciuto. Questa, che potrebbe sembrare una scena quasi assurda, in realtà è piuttosto fedele al quello che era un costume di John Dillinger: apparire in luoghi pubblici e ostentare la propria presenza senza mai essere arrestato.
Altrettanto interessante è la scena nella sala cinematografica, quando al cinegiornale vengono mostrate le fotografie dei ricercati. Le luci in platea si accendono è gli spettatori sono invitati a voltarsi prima a destra e poi a sinistra per vedere se per caso i criminali sedessero con loro.
Questa è una della tappe della spettacolarizzazione della guerra fra guardie e ladri e il tristemente noto e laido tentativo delle istituzioni di trasformare i cittadini in delatori, pur di rendere più semplice il compito che dette istituzioni hanno voluto assumersi.
Il fatto che Dillinger, durante tale scena, guardi dritto davanti a sé mentre tutte le teste si girano all'unisono intorno alla sua non è soltanto una piccola provocazione, ma è anche un rimando sussurrato ad uno dei capolavori di Alfred Hitchcock intitolato "Delitto per Delitto" (o "L'altro Uomo", "Strangers on a Train", 1951).

Favolosa è tutta la sequenza dell'attentato e della uccisione di Dillinger.
Dillinger si reca al cinema, il Biograph Theatre di Chicago, per assistere alla proiezione del film "Manhattan Melodrama" ("Le due strade" in Italiano e "Nemico Pubblico" in francese, 1934) di cui Mann riprende gli eventi salienti e attraverso lo sguardo di Johnny Deep, velato da lenti, trasmette al pubblico una sorta di transfert fra Dillinger e il personaggio interpretato da Clark Gable, le cui battute sembrano tracciare il destino del rapinatore.
Fuori dal teatro Dillinger è seguito dagli sgherri del F.B.I. tutti con le armi puntate, come si insegue un cane rabbioso prima di abbatterlo. La scena è diametralmente opposta a quella iniziale in cui trova la morte Pretty Boy.
Non c'è inseguimento, non c'è azione, non c'è dinamica. Dillinger ha il tempo di voltarsi e di guardare la Morte negli occhi, prima di essere crivellato da cinque colpi di pistola, di cui uno fuoriesce dal suo zigomo destro.
Ancora pochi istanti, solo il tempo di sussurrare alcune parole all'orecchio di uno dei suo carnefici, e poi il Nemico Pubblico esce di scena per sempre, oberando la Repubblica Americana dell'onere di ricercare un nuovo Nemico Pubblico che giustifichi la sua esistenza.
Quel che resta è il cadavere di un uomo ucciso per la strada fra i flash dei fotografi e le luci dei lampioni. Anche la morte è spettacolo.

Un cast artistico di altissimo livello impreziosisce questa pellicola, ma fra tutti la vera regina è Marion Cotillard, che regala al pubblico un'interpretazione magnificamente dosata e di un'eleganza sublime.
Le musiche del sempre bravo Elliot Goldenthal sono ridotte al minimo per accrescere il realismo scenico e in più situazioni anch'esse ricordano un po' troppo da vicino le musiche di "Heat".

Ottime le scenografie e la ricostruzione degli ambienti, anche se una vasta serie di anacronismi e di inesattezze sono (quasi inevitabilmente) presenti. In particolare l'interno del Biograph Theatre è stato ricostruito nel Paramount Theatre di Aurora, sempre nell'Illinois.

Complessivamente le intenzioni di Michael Mann sono molto buone. Non si può dire la stessa cosa dei risultati a causa dei citati difetti di sceneggiatura che in alcuni casi appesantiscono e non poco la visione del film, mentre in altri casi banalizzano all'eccesso le vicende e i personaggi.
Una scrittura più accurata avrebbe senza ombra di dubbio trasformato "Public Enemies" in un capolavoro corale e magniloquente capace di denunciare gli abusi del potere e dei mezzi di spettacolarizzazione del potere a livello trasversale sia temporale, sia culturale.
Ciononostante, resta una pellicola raffinata e di alta scuola. Comunque da vedere e forse da rivedere.

"Bye Bye, Blackbird!"

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 16/11/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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