Recensione niente da nascondere regia di Michael Haneke Francia, Austria, Germania, Italia 2005
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Recensione niente da nascondere (2005)

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Miglior regia (Michael Haneke)
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Miglior regia (Michael Haneke)
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locandina del film NIENTE DA NASCONDERE

Immagine tratta dal film NIENTE DA NASCONDERE

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Immagine tratta dal film NIENTE DA NASCONDERE
 

La maggior parte delle persone vive la propria vita con spontaneismo "vegetale", senza riflettere sui come e sui perché; e fermandosi comunque al livello effettuale dell'esistenza, rinunciando ad auscultarsi interiormente per capire l'origine del proprio comportamento.
Da questo stato di "sopore" della coscienza, hanno origine le nevrosi di ogni tipo; tutte riconducibili a un denominatore comune: quello di compiere quotidianamente azioni che crediamo mirate a fini particolari, ma in realtà pilotate dalle zone d'ombra del nostro inconscio, a nostra totale insaputa. Da dove possa originarsi un processo di segno inverso, che porti a maggiori consapevolezze del sé, non è sempre chiaro; anche perché la maggior parte delle persone non gradisce andare a fondo dell'autoconoscenza, e sceglie la via di fuga della rimozione come lo struzzo: con la testa sotto la sabbia si ha meno paura perché non si vede il pericolo, e, oltretutto, si rifugge dallo spauracchio del cambiamento.

Pari pari, queste considerazioni potrebbero trasferirsi dalla sfera del singolo individuo, a quella più lata della politica e delle nazioni: queste stesse tendono a perpetrare delitti, obnubilando in seguito la doverosa coscienza storica, altrimenti soffocata dal senso di colpa. Che a questo punto torna necessariamente in ballo anche per il destino dei singoli, che di questo si alimentano abitualmente, dall'infanzia alle età più avanzate. Dove questo cova come brace sotto la cenere dell'evidenza, divenendo l'ombra oscura alla base dei nostri comportamenti, pilota automatico del nostro navigare nel mondo e nella vita; con il carico di sofferenza delle nostre nevrosi, in gran parte legate all'ignoranza dei problemi profondi del nostro inconscio.

Come si esce da queste dinamiche, se non per casi fortuiti?
Le vie ordinarie sono due: la strada maestra della riflessione filosofica, da sempre seguita nella storia del pensiero, e quella più specialistica della psicanalisi, iniziata con Freud, che dovrebbe portarci a scoprire cause ed origini dei nostri comportamenti; rimettendo poi la decisone di eventuali cambiamenti alla sfera dell'etica individuale.
Una terza via per illuminare le ombre del profondo è seguita spontaneamente dall'espressione artistica, che per definizione affonda le sue radici nell'inconscio. In quanto non razionale può sfuggire addirittura all'Artista stesso, ma ha comunque una forte funzione maieutica, conquistando il fruitore per transfert : lettore, spettatore e pubblico restano avvinti da un messaggio proveniente sì da terzi, ma che, ove riuscito, viene fatto proprio con un processo di identificazione; è così per tutte le arti, ma, in modo più evidente, nello spettacolo teatrale.

La lunga premessa per tentare di spiegare origine e modi del difficile film dell'austriaco Haneker, criptico quant'altri mai. La vicenda scorre con la suspense di un noir, dove l'arrivo di filmati anonimi semina il terrore all'interno di una (apparentemente) quieta famigliola borghese parigina. L'ingrediente dell'introspezione psicologica interviene quando il protagonista torna ad episodi sopiti della prima infanzia, dove bistrattava il figlio coetaneo di poveri immigrati di Algeria.
A tale colpa individuale, si aggiunge quella collettiva, simboleggiata dal lavoro del capofamiglia: come conduttore di un programma culturale televisivo porta sulle sue spalle anche il peso di rimozione dalla coscienza in chiave politica, della nazione intera (e il giovane algerino che gli domanda come si vive col senso di colpa risulta emblematico di ambo le dimensioni!).

Ma, compiuta una diagnosi, non è detto che si trovi la terapia. Dunque il nostro regista non fornisce risposte, ma si accontenta di avere gettato un sasso nello stagno, facendo emergere i problemi a livello di coscienza; col paradosso narrativo di non farci neppure sapere chi spediva i messaggi anonimi, divenuti semplice strumento simbolico... come se alla fine di un giallo non scoprissimo l'assassino. L'operazione, indubbiamente coraggiosa (o temeraria), risulta comunque eccessivamente cerebrale: secondo noi apprezzabile solamente da cinefili arrabbiati o saggisti velleitari. A nostro avviso il racconto, come ogni altra forma di comunicazione artistica, deve "arrivare" con maggiore immediatezza, anche se a livelli più o meno sofisticati. Deve essere penetrabile perché sia fruibile; non come certe scritture arcaiche soprattutto religiose, dove l'elemento criptico è voluto appositamente per lasciarne proditoriamente l'interpretazione esclusiva a sacerdoti ed aruspici (che sanno come approfittarne, come l'Azzecca Garbugli col suo latinorum).

Buoni del film restano comunque la conduzione scenica, la fotografia degli ambienti, e, in genere, la recitazione. Mentre daremmo l'eccellenza all'atmosfera di suspense e di attesa ansiosa di un evento fatale che ci ricollega in parte a "Il deserto dei Tartari" o alle pagine cupe de "Il grande fratello" orwelliano.

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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 21/10/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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