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"Un uomo anziano non è che una cosa miserabile"
William Butler Yeats, "Verso Bisanzio"
In una contea al confine fra gli Stati Uniti e il Messico e attraversata dal fiume Rio Grande (conosciuto anche come Rio Bravo), un uomo di nome Llewelyn Moss (Josh Brolin) è a caccia di antilopi. Spara e ne ferisce una. Moss abbandona la propria posizione per seguire le tracce dell'animale ferito, ma presto le tracce di sangue si confondono con quelle di un cane azzoppato che sta scappando. Ciò conduce Moss in una pianura dove è stata consumata una strage. Aggirandosi fra Pick-Up crivellati dai fori di proiettile, fra cadaveri di uomini e di cani, fra fucili a pompa ed armi automatiche, Moss trova un messicano gravemente ferito, che gli chiede dell'acqua, e un cospicuo carico di droga. È evidente che si trova sul luogo di uno scambio finito male. Notando che c'è la droga, ma non c'è traccia del denaro con cui questa avrebbe dovuto essere acquistata, Moss ignora il criminale morente e si getta alla ricerca di un possibile superstite. Lo trova poco dopo e non troppo lontano. Anche questi è morto e con sé ha una valigia piena di banconote. Moss se ne impossessa e ritorna a casa sua. Durante la notte però viene colto dai sensi di colpa così, senza spiegare niente a sua moglie (Kelly Mcdonald), riempie d'acqua una tanichetta e ritorna sul luogo del massacro per dissetare il Messicano ferito, pur sapendo che si tratta di un'azione che potrebbe procurargli non pochi guai.
E i guai arrivano puntualmente. Il Messicano è morto, ma mentre Moss si trova là, arrivano delle altre persone che forano le gomme del suo Pick-Up e che poi si gettano al suo inseguimento.
Da quel momento incomincia una caccia all'uomo e al denaro che vedrà vari protagonisti, fra cui lo spietato sicario Anton Chigurh (Javier Bardem), lo sceriffo Tom Bell (Tommy Lee Jones) e un "intermediario" di nome Carson Wells (Woody Harrelson).
Questa pellicola non si apre con la narrazione della vicenda raccontata nella sinossi, bensì con la presentazione al pubblico di due personaggi: il primo è lo sceriffo Bell, la cui voce fuori campo ci guida incisivamente in seno alla storia che poi sarà narrata, senza mostrarci il volto del personaggio; il secondo è Chigurh, uno spietato assassino che incarna fedelmente le parole pronunciate dallo sceriffo.
"Non ho intenzione di mettere la mia posta sul tavolo, di uscire per andare incontro a qualche cosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima... dire: o.k. faccio parte di questo mondo!"
Un mondo che sta cambiando troppo rapidamente, quello in cui vive lo sceriffo Bell. Un mondo difficile da seguire e difficile da comprendere; un mondo di cui non si sa più se si vuole far parte, né se si riesce a farne parte. Un mondo in cui si muove un killer spietato e psicopatico come Chigurh; un mondo in cui la gente si massacra per il denaro e, a volte, uccide anche per molto meno.
"Non è un Paese per Vecchi" è la tredicesima pellicola realizzata dai fratelli Joel e Ethan Coen, tratto dall'omonimo romanzo di Cormac McCarthy che deve il proprio titolo al primo verso della citata poesia di Yeats.
Come sempre nel corso di questa analisi si riveleranno tutti i principali accadimenti del film incluso il suo finale, quindi se ne sconsiglia la lettura a chi ancora non avesse visionato il film.
I fratelli Coen hanno sempre regalato al pubblico pellicole impeccabili nella loro dimensione estetica. La regia è generalmente firmata dal solo Joel, mentre entrambi sono autori delle sceneggiature.
"Non è un Paese per Vecchi" è la seconda pellicola – la prima è "The Ladykillers" (2004) - in cui la regia è ufficialmente firmata anche da Ethan. Tuttavia è noto come i due fratelli abbiano sempre cooperato, quindi in questo contesto, ogniqualvolta si parli di un loro film, si preferisce attribuire ad entrambi i fratelli tanto la regia quanto la sceneggiatura.
Ciò precisato, è bene ricordare che il cinema dei Coen è sempre stato all'insegna dell'iperbole sia sotto un profilo narrativo, sia sotto un profilo visivo. Ma se, nella maggior parte dei casi, si era trattato di un gusto per l'eccesso, coronato da un tripudio di virtuosismi registici e da una sofisticata saturazione narrativa, come ad esempio in "Mister Hula Hop" ("The Hudsucker Proxy", 1994) e ne "Il Grande Lebowski" ("The Big Lebowski", 1998), in "No Country for Old Men" si gioca tutto in difetto. Infatti, tanto la costruzione narrativa, quanto la regia, sono sobrie ed asciutte, semplici e lineari.
È, dunque, un cinema che gioca in sottrazione, quello che i fratelli Coen propongono al pubblico con questa pellicola. Un cinema che assorbe lo spirito del romanzo di McCarthy il cui stile narrativo, scarno ed asciutto, a sua volta già giocava in sottrazione in ambito narrativo e letterario.
Tuttavia, benché la trasposizione dall'opera letteraria sia assai fedele, i Coen non hanno mancato di contrassegnare il film con una fortissima impronta personale. Questo connubio è anche stato aiutato dal fatto che le tematiche trattate nel romanzo sono assai vicine a quella che è sempre stata la loro concezione di cinema.
In "No Country for Old Men" ritroviamo un registro stilistico e una variegata serie di tematiche che hanno contraddistinto e caratterizzato tutta la produzione dei Coen.
Il Caso è il Deus ex Machina che governa i destini dei personaggi. La Violenza permea ogni aspetto della realtà. Si tratta di una violenza dalla grammatica elementare e risolutiva, accompagnata da una gratuità compiaciuta. L'Ironia è presente, ma in una sua componente assolutamente differente rispetto ai film precedenti: essa si manifesta tendenzialmente con un semplice ribaltamento dei ruoli e delle situazioni.
Andiamo a vedere meglio queste tre tematiche, che analizzeremo separatamente benché in realtà siano strettamente legate e correlate.
Il Caso manifesta la propria presenza più palese attraverso la moneta che Chigurh usa per decidere la sorte degli sventurati che incrociano il suo cammino. Ma è ancora il Caso che conduce Moss sul luogo della strage e che investe Chigurh dopo l'assassinio della povera Carla Jean. Nessuno è padrone del proprio destino. Non vale per i Coen la celebre locuzione di Appio Claudio Homo Faber Fortunae Suae. In questo mondo il Caso assurge a legge universale, diventando l'unica discriminante capace di separare, di unire o semplicemente di intersecare i destini degli individui.
I personaggi compiono delle azioni senza essere capaci di prevederne le conseguenze. È palesemente assurda la scelta di Moss di ritornare sul luogo del massacro per portare quella tanichetta d'acqua a un uomo che probabilmente ormai sarà morto (come in effetti è). E, se da un lato è consapevole che la sua azione sia fondamentalmente sciocca e potenzialmente rovinosa, dall'altro non rinuncia e agisce senza nessuna autentica riflessione, innescando una reazione a catena di eventi.
Lo stesso Chigurh, ancora più della sua moneta, appare essere la personificazione del Caso da intendersi come Fato. Un destino fatale, appunto, che si aggira per le strade, pregiudicando la sorte di quanti si trovino sul suo cammino.
Questa identificazione fra Chigurh e il destino è perfettamente esplicitata nel faccia a faccia fra lui e la moglie di Moss.
"No, io non voglio scegliere", dice la povera Carla Jean, dopo che Anton ha lanciato la fatidica moneta.
"Scegli!", la incalza.
"Non è la moneta che decide. A decidere sei tu!".
"Io e la moneta siamo arrivati allo stesso punto!".
La Violenza è cruda ed asciutta, gratuita ma funzionale. La violenza è solo un mezzo che consente il più rapido conseguimento di uno scopo. Non c'è brutalità, ma semplice funzionalità. La Violenza serve a procurare la morte. La morte serve a semplificare le situazioni.
Diceva Stalin:
"La morte risolve ogni problema... via l'uomo, via il problema."
E questa è l'ottica in cui si muove Chigurh. Non c'è odio, né rancore, né invidia, non c'è niente di passionale nelle sue azioni. È l'indifferenza verso la morte e verso il prossimo a guidare la sua mano. L'essere umano è destinato al macello come ogni altro animale. Non è un caso che l'arma principale di Chigurh agisca nello stesso modo delle pistole con cui vengono uccisi i bovini nei mattatoi.
Esemplificativo il dialogo fra Moss, sdraiato nel suo letto d'ospedale dopo lo scontro con Chigurh, e Wells.
"Non si preoccupi, non sono l'uomo che sta cercando", dice Wells riferendosi a Chigurh.
"Lo so, l'ho visto!".
"L'ha visto? E non è morto?".
"E chi sarebbe? Il padre di tutte le carogne?".
"No, non credo che lo descriverei così. Direi che gli manca completamente il senso dell'umorismo".
La Violenza di "Non è un Paese per Vecchi" discende direttamente da quella che è stata la produzione cinematografica dei Coen. I riferimenti sono evidenti a partire da "Blood Simple" (1984), passando per "Crocevia della Morte" ("Miller's Crossing", 1990) fino all'eccellente "Fargo" (1996).
Un discorso a parte merita il film "L'Uomo che non c'era" (2001), da cui è mutuata l'eleganza visiva e formale, la concezione esposta sopra di Caso e, soprattutto, quella di uomini che conducono la propria esistenza in balia del Destino come una zattera nel bel mezzo di un oceano in tempesta, l'indifferenza verso l'individuo e una violenza sistematicamente funzionale.
Un cinema autocitazionista sicuramente, ma non solo. Nella grammatica del massacro i Coen hanno mutuato anche il cinema di Sam Peckinpah e di Sergio Leone. Un cinema in cui i morti sono a centinaia, ma sono assolutamente anonimi, non hanno nessuna caratterizzazione, né nessuna individualità. In tal senso i riferimenti a "Il Mucchio Selvaggio" e a "Giù la Testa" sono evidenti. Ma non solo: non manca qualcosa del cinema di Don Siegel, di John Huston e di Arthur Penn. Tutti autori che hanno affrontato il mito della frontiera dando vita a film malinconici, crepuscolari e pessimistici.
Il punto d'intersezione fra il caso e la violenza, il crocevia della morte, è la telefonata fra Chigurh e Moss. Questa si traduce nell'esplicitazione dell'inesorabilità del destino.
L'Ironia e uno spiccato gusto per il cosiddetto humour nero ha sempre caratterizzato la filmografia dei fratelli Coen. Ma d'ironia in "Non è un Pese per Vecchi" non ce n'è. O almeno non appare nel senso convenzionale del termine. La sola Ironia che i registi si sono concessa è quella derivante dall'inversione dei ruoli e dall'indeterminabilità degli eventi.
Moss è un cacciatore che diventa preda; Chigurh è il destino che a sua volta – l'incidente stradale – diventa vittima del Destino; è disilluso lo sceriffo Bell, ma ancora si scopre a sognare e gli resta sempre l'amaro in bocca al momento del risveglio.
A questo fa da corollario la canzone che canta il gruppo di mariachi al risveglio di Moss, dopo che è riuscito a varcare il confine con il Messico.
"Hai voluto volare senza le ali. Hai voluto toccare il cielo. Hai voluto troppa ricchezza. Hai voluto giocare con il fuoco".
Ed è così che Moss come Icaro ha cercato di raggiungere il sole, ma è precipitato miserevolmente.
Il cinema dei Coen si manifesta attraverso una ricostruzione e successiva destrutturazione dei generi cinematografici. Questa volta in apparenza il pubblico si trova di fronte ad un film western crepuscolare. Naturalmente si tratta di una falsa traccia. La progressione narrativa, così come nel libro di McCarthy, è impietosa nei confronti del pubblico. Essa prepara ad una svolta che non ci sarà mai. Il classico confronto finale fra le parti avverse, tipico dei film di genere, è negato. Addirittura la morte del protagonista, sempre che si possa definire Moss come protagonista, avviene fuori scena come nel teatro di Cechov. Mentre la morte della moglie di Moss, così chiara nel romanzo, è ancora una volta negata. La si evince semplicemente dal modo con cui, uscendo dalla sua casa, Chigurh si controlla la suola delle scarpe. Come abbiamo affermato precedentemente è un cinema giocato completamente in sottrazione.
Anche la commistione cronologica fa parte di questa volontà. Il film, così come il romanzo, è ambientato nel 1980, ma all'epoca non c'erano i telefoni cellulari, come quello posseduto da Carson Wells. Naturalmente non si tratta di un errore né di una svista. Il paese che non è adatto ai vecchi è un punto di intersezione generazionale, una linea di confine fra passato e futuro. Un crocevia dove ha luogo quello scontro fra queste due categorie ontologiche da cui ne scaturisce una terza: il presente. In questa ottica è discutibile, infatti, dire se i numerosissimi anacronismi presenti nella pellicola siano frutto di sviste e di errori o rientrino nella fondamentale opera di destrutturazione compiuta dai Coen.
Da tutto ciò discende una realtà sostanzialmente svuotata da qualsiasi valore e da qualsiasi categoria assiologica.
Ci si trova in un mondo dove il Caos regna incontrastato.
Come in molte altre opere dei Coen, anche qui c'è un malloppo da recuperare, ma inseguirlo si dimostrerà vano come inseguire il vento. È il miraggio di un benessere che conduce alla rovina. E sarebbe riduttivo circoscrivere questa simbologia ad una semplice ricerca di un benessere materiale. Il discorso si sposta oltre e, come accennato, passa dal piano ontologico a quello assiologico.
Dice, infatti, Chigurh a Wells:
"Toglimi una curiosità: se le regole che hai seguito ti hanno portato a questo punto, a che servivano quelle regole?".
"No Country for Old Men" è la summa dell'universo cinematografico creato dai fratelli Coen, almeno sotto un profilo contenutistico e narrativo.
L'inquadramento apparente di questa pellicola nel genere western crepuscolare è, come abbiamo accennato sopra, un parziale inganno. Qui confluiscono tutti gli elementi del noir ed dell'hard boiled, che si uniscono a quelli del mito della frontiera, ad un iperrealismo esasperato, ad una nostalgia tutt'altro che romantica, ad un dramma esistenzialistico che ha le cadenze di una piece teatrale tragica. Nello stesso modo in cui ai personaggi è negata qualsiasi via d'uscita, qualsiasi spiraglio di redenzione, qualsiasi ancora di salvezza, allo stesso modo vengono negate allo spettatore tutte le aspettative. Non solo lo spettatore non assisterà mai allo scontro fra le due categorie antitetiche, che sarebbe riduttivo e sbagliato individuarle nel dualismo Bene e Male, rappresentate dallo sceriffo Bell e da Chigurh (scontro che avverrà soltanto attraverso un'immagine riflessa e distorta dalla superficie concava di una serratura saltata), ma gli è negata anche la possibilità di seguire le sorti dei personaggi e gli epiloghi degli accadimenti. Ad esempio, oltre alla scioccante morte fuori campo di Moss, la fine del tanto famigerato malloppo non sarà mai palesata.
Tutto questo ci porta al personaggio dello sceriffo Ed Tom Bell. Egli è il protagonista defilato dell'intera vicenda. Si tratta di un protagonista che non agisce e che scarsamente interagisce con gli altri personaggi.
Tom Bell è uno spettatore compartecipe, un testimone nauseato di una realtà che non riconosce e che sfugge da qualsiasi logica e da qualsiasi comprensione.
È un vecchio, ma non per mere ragioni cronologiche o biologiche. È vecchio poiché è rimasto ancorato ai tempi passati e ne ha nostalgia. È vecchio perché si trova a vivere in un mondo che sente non appartenergli più, che non riesce a capire, che non ama. È inutile riportare interamente il lungo e bellissimo monologo introduttivo narrato dalla sua voce fuori campo, ma questo è al contempo l'antefatto e la sinossi dell'intera pellicola.
Bell e Chigurh sono due facce della stessa medaglia, anzi della stessa moneta (proprio come quella con cui il sicario decide se uccidere o risparmiare una persona), ma se il primo è spettatore del divenire di un mondo di fronte al quale si trova impotente, l'altro è un'entità agente che attraversa quel mondo trasformandolo in passato. Chigurh è l'anello di contatto fra il presente e il futuro; attraverso l'annientamento del presente egli lascia posto a ciò che ha da venire.
Il confronto che si instaura non è un confronto fra individui, né quello fra le due categorie assiologiche accennate, bensì quello fra due mondi antitetici e incompatibili proprio come sono incompatibili le realtà ontologiche del passato e del futuro.
Sotto un profilo tecnico abbiamo già sottolineato come la scelta dei Coen sia caduta, in conformità con l'opera letteraria da cui trae origine il film, sulla scelta di un'iperbole che agisce per difetto.
A parte alcune sequenze la regia è semplice, scevra di qualsiasi virtuosismo visivo, finalizzata alla costruzione di un mondo a sua volta semplice, arido, lineare e piatto.
Fa eccezione la scena di dell'omicidio del poliziotto. In questa scena inizialmente Chigurh non è messo a fuoco anche se lo vediamo liberarsi dalla costrizione delle manette, che si trasformano, come qualsiasi altro oggetto che gli capita per le mani, in un'arma micidiale. Mentre egli strangola il poliziotto, entrambi i personaggi sono stesi sul pavimento e la macchina da presa scende su di loro con un moto rotatorio lento, concentrandosi non sul volto della vittima, ma su quello del carnefice. L'immagine sfuocata incarna perfettamente il personaggio: un'ombra di morte che striscia silenziosamente nelle esistenze altrui.
Dice lo sceriffo Bell riferendosi a Chigurh:
"Non sono sicuro che sia pazzo... A volte penso che sia praticamente un fantasma".
Nel giocare in sottrazione è evidente come siano efficaci più che le apparizioni, le sparizioni di Chigurh. Raramente lo vediamo sparare, mentre vediamo sovente i danni che producono i suoi proiettili. Come ad esempio in tutta la sequenza dello scontro fra lui e Moss. Non vediamo Chigurh forzare la serratura, ma vediamo la serratura schizzare via così come vediamo infrangersi il vetro del Pick-Up fermato da Moss e morire il conducente.
Altra sequenza che sfugge a questa ricercata assenza di virtuosismi e quella che introduce il personaggio di Moss. Egli sta cacciando e ferisce un'antilope. Il cielo si annuvola e le nuvole proiettano la propria ombra sulla vallata desertica in cui Moss si avventura, scoprendo il luogo della strage. Altro evidente simbolismo di quanto sta per accadere.
Le riprese iniziali del deserto, così sconfinato ed arido, a loro volta rappresentano efficacemente quella desolazione che affligge l'animo di Bell.
Si noti anche che i tre personaggi principali ossia Bell, Moss e Chigurh, non si incontrano mai faccia a faccia. Solo Chigurh e Moss hanno il loro incontro mancato. Infatti, non sono mai abbastanza vicini da essere inquadrati contemporaneamente.
Inoltre, la collaborazione fra i fratelli Coen e il "loro" direttore della fotografia Roger Deakins continua a dare risultati magnifici.
Oltre agli splendidi paesaggi iniziali, immagini statiche che rispettano perfettamente la regola fotografica della tripartizione, si ricordino la sequenza in cui Chigurh compare alle spalle di Wells in fondo alle scale e, poco dopo, quella in cui il sangue di Wells sta raggiungendo gli stivali dell'assassino, che con cinismo si limita a sollevare le gambe e ad appoggiare i piedi sul letto della stanza. Si noti anche il constante altalenare fra immagini statiche, come la scelta di risolvere tutti i dialoghi con semplice campo e controcampo, e brevi soggettive con ricorso anche al campo ravvicinato fino al primo piano per trasmettere un movimento non dinamico. In altre parole anche il movimento viene imprigionato da una macchina da presa fissa, che solo in rarissimi casi segue i personaggi o si muove all'interno degli ambienti. In tal senso sono esemplificative le inquadrature che tengono al centro gli stivali del personaggio che si sta muovendo in un determinato ambiente, come ad esempio gli stivali di Moss che si aggirano fra i cadaveri sul luogo della strage, o gli stivali di Chigurh che calpestano il pavimento del comando dove egli ha appena strangolate l'aiutante sceriffo. In quest'ultima scena è notevole anche il parallelismo fra gli stivali immobili dell'uomo morto e quelli dinamici del suo carnefice.
Questa sottrazione permette di esaltare maggiormente il gusto per il dettaglio funzionale alla narrazione, oltre a valorizzare i dialoghi e le capacità espressive degli attori.
E le sottrazioni non finiscono qui. Il film è anche privo di un accompagnamento musicale, ad eccezione dei titoli di coda. Una scelta già operata in passato da alcuni grandi autori come Howard Hawks in "Scarface" (1932) per offrire al pubblico un realismo integrale.
Analizziamo rapidamente il rapporto fra il film e il romanzo di McCarthy.
La trasposizione operata dai fratelli Coen rispetta con una fedeltà quasi assoluta l'opera letteraria. Soprattutto alcuni dialoghi sono riportati parola per parola. Tuttavia, i registi sono andati oltre, riuscendo non soltanto a realizzare un'eccellente trasposizione cinematografica, ma dando vita ad un'opera artistica che vive di vita propria. Hanno anche saputo individuare ed elidere le parti più deboli del romanzo, conferendo al film un'impronta personalissima. Se già McCarthy gioca in sottrazione, i Coen sono andati oltre. Eccellente, ad esempio la scelta di non mostrare la morte di Moss, piuttosto pasticciata nel romanzo, né quella di sua moglie.
Complessivamente, ad opinione di chi scrive, i Coen hanno migliorato, ricorrendo a piccole modifiche, il romanzo di McCarthy, nobilitandolo.
La loro sceneggiatura ha una struttura di impianto classico e presenta una costruzione narrativa lineare, semplice ed asciutta. La metrizzazione della storia è assai curata ed armoniosa nella preparazione delle aspettative attraverso le attese, del coinvolgimento, della sorpresa operata attraverso uno scarto improvviso o attraverso una repentina deviazione narrativa. I tempi in molti casi sono rarefatti, quasi una elegia della lentezza volta ad un picco narrativo che poi è puntualmente negato.
Il Premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale non avrebbe potuto essere più meritato!
Gli attori sono favolosi.
A partire da Javier Bardem, che ha conquistato l'Oscar come miglior attore non protagonista, dando vita a un Anton Chigurh sorprendentemente spaventoso ed efficace, ad un Tommy Lee Jones disincantato, rassegnato, amareggiato, ad un Josh Brolin semplicemente perfetto, ad un Woody Harrelson irresistibile. Bravissima Tess Harper nel ruolo di Loretta Bell, che con poche battute e con pochi scambi di sguardi offre un personaggio intenso e intimamente complementare a quello dello sceriffo. Eccellente anche Kelly Macdonald nel ruolo della povera Carla Jean Moss.
Difficile distinguere l'attore dal personaggio. E le ottime interpretazioni sono anche maggiormente valorizzate dalle scelte registiche di cui abbiamo già parlato.
"Non è un Paese per Vecchi" è una pellicola raffinata, elegante e sofisticata. È un'opera al di fuori dei tempi, dei generi e delle mode, intrisa di un profondo pessimismo e capace di trasmettere allo spettatore un profondo senso di malessere che striscia nelle due ore di film senza mai manifestarsi apertamente. Il conflitto fra il passato e il futuro, che si instaura attraverso la negazione di un presente che possa vivere autonomamente, è la metafora di una società umana che, come il deserto, è ormai arida e non ha più nulla da offrire se non il proprio annientamento.
Hollywood è sempre stata definita la fabbrica dei sogni, ma come constata amaramente lo sceriffo Bell chiudendo questo film:
"... Poi mi sono svegliato!"
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 15/05/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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