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Dopo il grande successo mondiale ottenuto con "Per un pugno di dollari" Leone entra di diritto nell'Olimpo dei creatori del Mito. "Per qualche dollaro in più", anno 1965, approfondisce quelle tematiche care al regista, già evidenziate nel primo film della famosa trilogia del dollaro. Il protagonista, Clint Eastwood, è il Monco, l'eroe senza nome, con identico poncho della pellicola precedente (che Eastwood per scaramanzia non laverà mai e indosserà anche nel successivo "Il buono, il brutto, il cattivo"), cappello e sigaro in bocca (che accende anche quando piove), ed è affiancato questa volta dal grande Lee Van Cleef (già eccellente cattivo nel bellissimo "Mezzogiorno di fuoco", intramontabile western diretto da Fred Zinnemann e interpretato dall'indimenticabile Gary Cooper).
Entrambi sono dei Bounty Killers -cacciatori di taglie- e il loro scopo è catturare El Indio, un messicano tossico e schizofrenico interpretato da un sempre ineffabile Gian Maria Volonté.
I cacciatori di taglie non sono solamente esseri senza scrupolo, come venivano considerati nell'immaginario comune prima di questa pellicola, ma coloro che "danno dignità alla morte in un mondo che non ne dà più alla vita"; "Where life had no values, death, sometimes, had its price. That's why the Bounty Killers appeared" (dove la vita non aveva più valore, la morte, qualche volta, aveva il suo prezzo. Questo è il motivo per cui apparvero i cacciatori di taglie), recita la scritta all'inizio del film. I due cacciatori di taglie hanno quindi una loro dignità ed un onore che in fondo riscontriamo anche nel cattivissimo Volonté (anch'egli ha un passato sofferente ed anch'egli ha già assaporato il tema della vendetta.)
Si inizia con un sole giallo che campeggia su uno sfondo rosso. Tutto sfuma ed ecco il campo lunghissimo di una vallata americana. Un uomo sta arrivando a cavallo, fischiettando. Ma ecco che si sente il rumore di uno sparo. L'uomo cade a terra esangue, mentre il cavallo fugge. Non ha importanza chi è l'uomo stramazzato a terra, come non è importante sapere chi è che lo ha ucciso. Solo una cosa è certa: a sparargli è stato un Bounty Killer. Da qui parte la sigla: come nel precedente film i titoli di testa sono innovativi, e ad accompagnarli è la musica leggendaria di Ennio Morricone. Si è spesso affermato che sia stato il grande genio Stanley Kubrick il primo regista ad avere saputo dare la giusta collocazione alla musica all'interno del cinema sonoro, una sorta di temporalità musicale rispetto all'azione. Ma in questo caso possiamo dire senza possibilità di essere contraddetti che il vero capostipite della temporalità della musica su grande schermo (temporalità legata all'immagine e all'azione dei suoi protagonisti) sia in verità il nostro Sergio Leone. Come infatti ha sempre confermato Morricone ("ho composto la musica in base al protagonista ed al suo agire e non in base al film"). Il fatto poi che la sigla inizi al suono di un marranzano ci fa già capire quanto il fatto di trovarsi nel Far West conti poco rispetto ai personaggi e al loro modo disincantato di agire.
Iniziano i titoli di testa e noi cominciamo a sognare. Il sogno del bambino (in questo caso il west dei cowboys) diventa reale. Ci era già riuscito John Ford a farci sognare ma, rispetto ai grandi western americani, si ha qui una sorta di ribaltamento: Ford aveva fatto sognare l'adulto, Leone il bambino che è in ogni adulto. Ford ci ha fatto sognare con l'eroe buono, senza macchia e senza paura, Leone ci fa identificare con il cacciatore di taglie, un eroe cinico e beffardo, che mentre nel mito oltre frontiera americano dava valore alla vita, nel western di Leone lo dà invece alla morte.
"Gli Americani hanno sempre dipinto il west in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l'antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull'argomento è stato fatto da Kubrick in Spartacus: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. E' stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato" disse un giorno, non a torto, Sergio Leone.
Differentemente dal cowboy "originale", rappresentato per esempio da John Wayne l'"Uomo senza nome" gioca sporco e non ci pensa due volte a sparare per primo, se questo soddisfa il suo personale senso della giustizia.
Clint Eastwood, l'eroe senza nome. In cerca dello stesso uomo di cui sta andando in cerca il Colonnello Douglas Mortimer. C'è da dire però che Mortimer, come verrà spiegato alla fine, non è in questo caso un Bounty Killer in cerca di una taglia: lui vuole G.M. Volonté perché vuole assaporare quel sentimento da sempre presente negli albori dell'animo umano: la vendetta. La vendetta è un piatto che si serve freddo.Il richiamo a William Shakespeare non è casuale e possiamo tranquillamente dire senza possibilità di contraddizione che già con il suo terzo film Leone può affrontare questo archetipo con la cognizione di causa di un vero genio.
"Per qualche dollaro in più" accentua la violenza già presente nel precedente "Per un pugno di dollari" ma anche l'ironia. I due protagonisti fanno fuori i cattivi senza perdere il loro savoir-faire, anzi con un umorismo che verrà poi praticamente copiato dagli eroi di tutto il cinema mondiale.
Discorso a parte meritano la fotografia di Massimo Dallamano e le inquadrature studiate in ogni angolazione e davvero uniche. I primissimi piani (tutti voluti da Leone ed in parte ispirati ai film di Kurosawa) hanno fatto storia. Così come la sequenza del duello finale e l'ultima, ormai celeberrima, sequenza e conseguente battuta di Eastwood.
Una curiosità: tra i facenti parte la banda dell'Indio figurano un ancora semisconosciuto Klaus Kinski e Mario Brega, il padre di Verdone ne "Un sacco bello".
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Recensione a cura di paul - aggiornata al 26/01/2005
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